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La Farfalla granata che non ha mai smesso di volare: 52 anni dopo, Meroni vive

Un antico poeta indiano, Rabindranath Tagore, diceva che “la farfalla non conta gli anni, ma gli istanti. Per questo il suo breve tempo le basta”.

Gigi Meroni è stato e sarà sempre la farfalla granata. Brevemente in vita, eternamente dopo la sua morte, un maledetto 15 ottobre del 1967. Era l’idolo di tutti i tifosi del Torino. Aveva 24 anni e da due stagioni nessuno segnava quanto lui. Ma la gente non lo amava per un gol in più o in meno. Gigi Meroni era il ’68 prima del ’68.

Un moto spontaneo di libertà e anticonformismo, ala destra naturalmente in fuga da convenzioni e difensori, capelli lunghi, abitudini stravaganti e una capacità unica nel dribblare tutti e tutto. Fino all’ultimo tackle, quello di un “avversario” arrivato dal buio in una domenica piovosa di mezzo secolo fa. Una 124 Coupè guidata da un ragazzo di 19 anni che, poche ore prima era sugli spalti a tifare per lui in Torino-Sampdoria, lo travolge in corso Re Umberto.

Gigi vola sull’altro lato della carreggiata. Un’altra auto lo investe. Quel giovane che lo colpisce ha la foto del numero 7 granata in macchina e una camera piena di suoi poster. Si chiama Attilio Romero. Gli sospendono la patente e gli danno 6 mesi con la condizionale. Pena lieve, dolore infinito, che si porterà dietro sempre. Anche quando nell'estate del 2000 diventa, scherzo del destino, presidente del Torino. Un inatteso secondo tempo nella storia granata, finito anch’esso drammaticamente col fallimento del club nel 2005.

È impossibile capire dove sarebbe potuto arrivare Meroni. Il presidente Orfeo Pianelli lo aveva strappato al Genoa nel ’64 per ben 300 milioni di lire. Tre anni dopo aveva resistito, complice una sommossa popolare fomentata dagli operai Fiat di fede granata, al pressing della Juventus. L’Avvocato Gianni Agnelli arrivò ad offrire, invano, 750 milioni. Rifiutati, col groppo in gola. Ma neanche troppo. Perché Meroni era il calcio di periferia trasportato sui grandi palcoscenici. Era George Best senza l’alcool. Era Omar Sivori senza gli scatti luciferini. Era il fanciullino di Pascoli fuori e il superuomo di Nietszche in campo.

Lo assimilavano ai Beatles, un po’ per i capelli, un po’ perché era nato nelle stesse ore di George Harrison. Gigi li ascoltava, ma amava soprattutto Tenco e De Andrè. Voci e note da Genova, la città in cui aveva conosciuto Cristiana, una giostraia, l’amore della sua vita. Una ragazza italo-polacca, bellissima, che gestiva uno stand al luna park. Da lei si sparava con la carabina per vincere un orsetto. Gigi vinse lei. Non avevano neanche vent’anni quando i loro sguardi s’incrociarono per la prima volta, nella primavera del ’62. Cinque anni dopo, all’ospedale Mauriziano, sarà un urlo straziante di Cristiana ad annunciare indirettamente ai cronisti la morte di Meroni.

La sua scomparsa commosse una città intera, ma non la Diocesi locale, che non concesse la messa funebre al giocatore. La sua colpa? Amare una donna già sposata. Sì perché Cristiana qualche anno prima, su pressioni della famiglia, aveva sposato un assistente alla regia di Fellini. Un matrimonio di convenienza da cui fuggì repentinamente. Ma i giorni del divorzio erano ancora lontani. Cristiana iniziò la procedura alla Sacra Rota ma non era una cosa breve. I due convivevano in una mansarda a via Veneto. A volte portavano a spasso una gallina – l’animale domestico di Gigi – altre volte lei lo guardava dipingere. Era la sua musa, la sua modella, la sua casa. Gigi provò cento volte a terminare il ritratto di Cristiana. Gli occhi non uscivano mai come voleva. Restò una sorta di angelo senza sguardo, forse un modo per difendere quell’icona dalla visione del suo corpo sull’asfalto.

Due giorni dopo la sua morte, don Ferrando, cappellano storico del Toro, rischiò la scomunica e decise di celebrare ugualmente il funerale. Cristiana in prima fila e 30mila persone alle spalle. Una settimana dopo invece il Toro tornò in campo. In casa della Juve, in un derby con 23 giocatori in campo, 22 visibili e un fantasma. Sarà per questo che il Torino vinse 4-0, con 3 gol di Nestor Combin, uno dei migliori amici di Gigi. Sarà per questo che l’ultima rete la segnò Alberto Carelli, ala sinistra spostata a destra. Per la prima volta indossava la numero 7. Il gol non era il suo mestiere, ma quel giorno qualcuno stava giocando col destino. Dall’alto, purtroppo. E continuò a scherzare anche la domenica successiva contro la Spal: altro gol di Carelli, la mistica della maglia numero 7 che diventa incantesimo, il primo posto in classifica.

Solo un fuoco di paglia. Il Torino esaurì la sua rabbia. Per due mesi non vinse più e scivolò nelle retrovie, chiudendo il campionato al settimo posto. Da quel 15 ottobre del ’67 i tifosi granata contano gli anni per rivivere gli istanti fuggenti della loro farfalla volata via.

Quel battito d’ali era l’annuncio di una rivoluzione. Forse aveva ragione Tagore. “Quel breve tempo” basta a una farfalla. Il problema è che non basta a chi ama la bellezza di un dribbling e a chi non si stancherebbe mai di guardare l’arte in movimento. Per questo i Gigi Meroni non bastano mai.

 

Claudio Giambene