Herat, terza città afghana per popolazione situata a pochi chilometri dal confine occidentale con l’Iran, terra di conflitti ma anche teatro di storie di coraggio e resistenza. Qui si allena e gioca la squadra femminile di calcio del Bastan Football Club. Una notizia, quella di una squadra femminile, del tutto normale in molti paesi del mondo. Ma siamo in Afghanistan, dove i diritti delle donne sono spesso inesistenti: il calcio quindi è il mezzo per ottenere visibilità su dinamiche e realtà altrimenti oscure ai più.
A contribuire a far conoscere questa storia ci ha pensato Stefano Liberti, giornalista che ha girato un video per “Internazionale” nel 2017 raccontando la giornata tipo delle ragazze-calciatrici di Herat e dintorni; si sono volute svincolare dal ruolo tradizionale che la donna Afghana deve ricoprire mettendo tutta la dedizione possibile per il gioco del pallone. Il video si apre con Sabrinha, capitano della squadra, che stira. L’immagine tradizionale viene subito rovesciata quando, poco dopo, si scopre che sta stirando la sua divisa d’allenamento, chiedendo anche a gran voce la sua fascia da capitano, in modo quasi scocciato, a qualcuno in un'altra stanza.
Il calcio, specialmente a queste latitudini, unisce, forgia e scaccia la paura. Spesso infatti, a Herat come nel resto del paese, si può essere coinvolti in un conflitto a fuoco o assistere ad un attentato. Ma allenarsi, per queste giocatrici, è troppo importante, anche sotto le bombe e i colpi di mortaio. Ruolo fondamentale in questo piccolo miracolo sportivo e culturale lo ha l’allenatore Najibullah che ha messo insieme la squadra quattro anni fa. All’inizio non è stato facile andare contro lo scetticismo generale, ma piano piano, attingendo anche da altre provincie come un vero talent scout, Najibullah ha fatto partire il progetto coinvolgendo molte donne. A complicare le cose ci hanno pensato i Taliban, gruppi integralisti che comandano molte zone del paese, i quali hanno visto nel Bastan Club una minaccia intollerabile al loro bieco oscurantismo, passando a loro volta a minacciare a più riprese sia le giocatrici che l’allenatore. Niente da fare, il sogno continua, e lo stesso Najibullah darebbe la vita per portarlo avanti.
Gli allenamenti sono intensi e si svolgono specialmente al mattino presto, quando le temperature sono ancora basse, visto che le giocatrici indossano il velo e sono totalmente coperte, come da precetti islamici, lasciando intravedere solo le mani e il volto. Questo potrebbe essere un impedimento tecnico; non per loro. Anzi, la squadra ha buone doti con la palla tra i piedi. Ne sanno qualcosa le soldatesse italiane che operano a Herat. Nella base di Camp Arena infatti hanno giocato e perso più di una partita contro le “magiche afghane”, all’interno di un progetto per i diritti delle donne che coinvolge i due paesi. Ma quando si vedono delle giocatrici correre dietro un pallone in Afghanistan, nessuno può aver perso. La speranza è che sia sempre meno raro venire a conoscenza di storie di coraggio e passione come questa, che onorano chi le scrive e nobilitano il ruolo culturale del calcio nel mondo.
Di Riccardo Despali