Definisco da sempre il viaggio come un percorso alla scoperta del proprio essere. C’è chi viaggia per scoprire i tesori più nascosti del mondo, chi parte all’avventura per ampliare il proprio bagaglio culturale. Poi, però, ci sono le persone come me. Come noi: anime legate visceralmente allo scorrere di un pallone, volti condizionati esclusivamente da ciò che succede in campo.
Ne respiriamo l’odore pur essendo lontano kilometri, nutrendoci quotidianamente di quell’essenza così unica e particolare. Per spiegare bene cosa intendo, mi occorre fare un passo indietro con la mente. Tornare per un attimo in quel di Roma e immergermi nuovamente nell’atmosfera da ultima volta. O meglio, da ultimo derby.
L’ultimo atto di Francesco Totti contro i rivali laziali, a casa sua, con la sua gente: un evento unico, irripetibile, al di là di qualsivoglia preferenza dettata dal cuore. Trovare i biglietti non era poi così difficile: merito senz’altro dell’AS Roma, società da sempre attenta e disponibile verso noi diversamente abili. Il problema era nato subito dopo, perché la partita era in programma per le 15:00, ma la mia famiglia aveva pensato bene di organizzare per me una trasferta generale al Vaticano per mezzogiorno, con l’idea di farmi incontrare il Papa proprio nel bel mezzo della messa “riservata” ai ragazzi con difficoltà. Ammetto di aver apprezzato notevolmente il gesto, cosa che era anche possibile notare da quel mio leggero sorriso. Ma poi quel sorriso era diventato amaro, una volta appresa la notizia dello spostamento della gara alle 12:30, per motivi a me poco chiari.
“A quella puoi rinunciare, ci sono cose più importanti”. Il messaggio era chiaro, lapidario. Peccato, però, non avessi alcuna intenzione di assecondarlo: ore e ore a rigirarmi nel letto, scervellandomi a dovere per cercare di trovare un punto d’incontro, per non sminuire la sacralità dei due eventi.
Così, al mattino, avevo deciso di tentare l’affondo, utilizzando la nobile arte della persuasione. Spiegai a più riprese quanto contasse per me essere lì, facendo leva su quegli occhi dolci che mi hanno sempre dato una mano. Alla fine, avevamo trovato un compromesso: avrei potuto chiamare il taxi, a condizione però di lasciare in pace i miei accompagnatori. In un attimo vidi il sole. Riuscivo a stento a contenere l’adrenalina, sembravo non percepire nemmeno ciò che mi stava intorno.
La mattina era proseguita serena, ma a un tratto un addetto iniziò a comunicare gli orari per l’incontro con il Pontefice e, non so se per prova di fede o per scherzo del destino, a me sarebbero toccate proprio le 12:30. Decisi così di giocare d’anticipo: chiamare il taxi e muovermi il più velocemente possibile.
La fuga
Non avevo fatto in tempo a prendere la decisione, che erano subentrati i sensi di colpa: stavo scappando da Papa Francesco. Troppo tardi: ero già dentro alla vettura con destinazione Olimpico. Venuto a conoscenza della mia meta, il tassista aveva sorriso di gusto: “A regazzí, hai fatto bene. Er papa tanto nun se move, sta sempre là. Er derby invece sta du vorte l’anno e per di più Er Capitano mio se sta a ritirá”. Ero felice.
E pazienza allora se l’1-3 finale restituisce più il sorprendente e vigoroso ritratto del duplice morso offerto da Keita, piuttosto che una figura fedele alla leggenda del Capitano con la Dieci. Porterò sempre con me gli applausi scroscianti di tifosi ed avversari, gli occhi che luccicano dopo un fugace sguardo al tabellone luminoso. 30 aprile 2017: cieco chi non vuol vedere. Il pallone come una fede. Il cuore è un gran bel muscolo involontario, sì. Perfino di fronte al nostro presunto volere.
Damiano Tucci