C’era il sole quella domenica a Lecce. Era il 27 gennaio del 2002. Un giorno di dolore per il Brescia di Baggio e Mazzone. La prima senza Vittorio Mero, scomparso qualche giorno prima in un incidente stradale. Silenzio e commozione. La maglia numero 13 sul terreno di gioco, un fiume di lacrime. Ma fine e inizio spesso si toccano. E calcisticamente, quel giorno nasceva Valeri Bojinov, bambino di 15 anni con il fuoco negli occhi. Un eletto. “L’erede di Stoichkov”, dicevano a Sofia. “Il nuovo Rooney”, scommettevano in tanti.
Sedici anni dopo il suo esordio, Valeri è diventato uomo. Quella fiamma non si è spenta, anche se tante speranze sono finite in cenere. Come le maglie indossate: 14, l’ultima, adesso, è quella del Rijeka. O Fiume, come la chiamiamo noi. Piglio dannunziano, stessa fame di quel bambino al via del Mare. “Sono in formissima. Sono stato senza squadra per quattro mesi, ma mi sono allenato da solo tutti i giorni col mio preparatore”, racconta ai microfoni di gianlucadimarzio.com. I dirigenti croati hanno voluto prima testarlo. Qualche giorno di prova in Portogallo, poi la firma. “Ho una voglia feroce di aiutare questa squadra. Voglio vincere qui e tornare a giocare le coppe europee”. Contratto di sei mesi e opzione per i due anni successivi. Parola d’ordine: ripartire. Dopo Losanna, dopo la serie B cinese. “Non mi pento di nessuna scelta che ho fatto. Neanche della Cina. Il livello tecnico era basso, ma economicamente ho colto una grande occasione. Un professionista deve guardare anche a quello. Ogni esperienza mi ha aperto gli occhi, questa ancora di più”.
Professionista ma ancora sognatore indomito. Ha scelto la Croazia, ma scruta ancora l’orizzonte. Alzando gli occhi, l’Italia è lì. Ancora nei suoi pensieri. “Guardando la serie A, mi rendo conto che potrei ancora essere importante. Il livello si è abbassato, la Nazionale è fuori dal Mondiale, eppure…”. Il tono si fa più acceso, Valeri è un animale in gabbia. “In tanti, procuratori o dirigenti, mi hanno dato per finito. Io so che non è così. Vedo tanti giocatori di basso livello. Passo per uno che spacca gli spogliatoi, ma non è vero niente. Ho un carattere forte. Non credo sia un difetto. Anche Hristo ce l’ha sempre avuto”.
Già, Hristo Stoichkov, idolo giovanile, eterno punto di riferimento. “L’ho sentito poche ore fa, per fargli gli auguri di compleanno. Un acquario come me. Teste esplosive, caratteri tosti”. Valeri è così, prendere o lasciare. Testa alta, zero rimpianti. “Non puoi vivere con lo specchietto retrovisore. Tra una settimana compio 32 anni. Ho fatto molti errori in passato, ma anche tante cose buone. Quando facevo il raccattapalle a Lecce, sognavo di fare quel passo in più per essere al posto di chi giocava. L’ho fatto, non posso lamentarmi”.
Lecce torna sempre nelle parole di Bojinov. Ci arrivò nel ’99 grazie a un’intuizione di Pantaleo Corvino, che lo scoprì in un torneo a Malta. “Mi convinse in un attimo a seguirlo in Salento. Gli devo molto, ancora ci sentiamo. Recentemente gli ho fatto anche da consulente di mercato. Prima di portare a Firenze Milenkovic e Vlahovic, miei ex compagni al Partizan Belgrado, mi ha chiesto un parere su di loro. Sono stato felice di dargli una mano”.
Una mano, anche di più, Valeri l’ha ricevuta da Zeman. Fu lui a lanciarlo a Lecce, quando era ancora minorenne. “Vide qualcosa in me e gli ho dato tutto. Anche un bacio a Roma dopo un gol, un evento irripetibile…Scherzi a parte, seguo sempre le sue squadre, è uno dei primi risultati che controllo. Mi ha spremuto come un limone, nel suo stile, ma mi ha reso un giocatore migliore”. E un uomo mercato, perché dopo lo sfolgorante inizio della stagione 2004/2005, 11 gol in 20 partite, la Fiorentina se lo portò via a gennaio, pagandolo 13 milioni di euro. “Fui accolto come un salvatore della patria. Forse sì, era troppo presto per lasciare Lecce. Sentivo una nostalgia immensa del Salento”. Per sentirsi parte del club si tatuò un indiano, simbolo della tifoseria viola. Un segno sulla pelle, cancellato col tempo. Mesi in altalena, fra grandi prove e momenti bui. Un amore bruciato in fretta e finito male. “A gennaio 2006 avrei dovuto trasferirmi all’Inter. Mancini mi voleva fortemente. Era tutto fatto. C’era un’ultima partita da giocare. Il presidente Andrea della Valle voleva che andassi in tribuna per non rischiare. Io volevo giocare: feci una scenata e usai parole sbagliate nei suoi confronti”. E così saltò tutto. Bojinov in lacrime a fine allenamento, fuori rosa e fuori posto. Poi il ritorno, qualche lampo e in estate il prestito alla Juve in B. “Esperienza stupenda. Buffon, Del Piero, Nedved, un sogno”.
Poi il risveglio. Perché i bianconeri decidono di non riscattarlo e allora via, destinazione Manchester. Sponda City, Eriksson allenatore, una società all’alba della sua grandezza. “Fui sfortunatissimo. Ginocchio e tendine d’Achille rotti. Due in due anni. Se ti deve girare male…”.
Ricominciò da Parma. “Feci otto gol al primo anno. Mi sentivo rinato. Ancora oggi mi sento con Alessandro Lucarelli, un amico vero. Mi sarebbe piaciuto aiutarli a tornare in A. Hanno fatto altre scelte, ma un domani per me sarebbe un grande piacere tornare al Tardini”.
L’ha lasciato nel 2011, ancora ci ripensa. Forse perché quella magia negli ultimi anni si è un po’ dissolta, tra Lisbona, Sofia, Verona, Vicenza, Terni, Cina, Svizzera, con l’eccezione di Belgrado: 18 gol in una stagione, record personale.
Adesso è tempo di una nuova avventura, in un altro paese slavo. “Non penso ancora a quello che farò a fine carriera. Mi piacerebbe allenare, ma ancora c’è tempo”.
Il suo presente è davanti a una porta, con un numero sulle spalle che promette battaglia. “Ho scelto il 10, lo stesso che avevo a Lecce quando mi ha lanciato Zeman”.
Tutte le rivoluzioni alla fine riportano sempre al punto di partenza. È un nuovo inizio. Il fuoco è ancora acceso.