Il ritorno a Genova, i tanti infortuni con il Milan, la voglia di vedere in Italia un calcio diverso. E’ un’intervista a 360° quella concessa da Andrea Bertolacci a SportWeek. Il primo commento? Ovviamente sulle sensazioni di essere di nuovo un giocatore rossoblù: “Avevo ricevuto tante offerte. Quella genoana mi ha preso più di tutte, anche emotivamente. Il presidente Preziosi e mister Juric mi facevano la corte e dicevano: “Torna a casa”. Abbiamo lo stesso desiderio: non ripetere la scorsa stagione, che è stata disgraziata per me e per loro. A Montella piacevo e il Milan ha provato a tenermi fino all’ultimo, infatti mi hanno ceduto solo in prestito. Ma io avevo bisogno di tornare a sentirmi protagonista. Il Genoa è la società più antica d’Italia: già questo dice tutto. Indossare il rossoblù è un onore. E poi i tifosi: la Nord gremita è uno spettacolo. È più bello giocare avendola di fronte che alle spalle. Hai la gente attaccata al campo, quasi alla porta avversaria. Calci, e vedi i tifosi con le facce stravolte dalla tensione; segni, e ti sembra che ti arrivino addosso. È incredibile l’adrenalina che ti dà correre sotto alla gradinata dopo un gol: quel muro di persone sembra venirti addosso”.
Nel Milan, due anni ricchi di sfortuna. Tra infortuni e ricadute: “Nei due anni al Milan mi sono infortunato come mai prima. Non avevo mai sofferto di problemi muscolari. Il primo, maledetto, contro la Lazio a Roma, per salvare con un colpo di tacco una palla che stava uscendo in fallo laterale. Avevo fatto gol, stavo giocando alla grande, e dopo mezz’ora mi faccio male in quel modo stupido. Penso: va bene, può capitare, riparto. E invece sono arrivate le ricadute, una dopo l’altra, o infortuni in punti diversi, ma sempre ai muscoli. Non sono mai riuscito a trovare continuità”. Colpa della troppa fretta di rientrare? “No. Può succedere che un allenatore esiga che un giocatore gli venga messo a disposizione, oppure che i medici ti considerino clinicamente guarito, ma da lì a forzare ne passa. Quello che ho sofferto mi è servito di esperienza”.
Vietato dare la colpa alla valutazione di 20 milioni, per Bertolacci non è mai stata un peso: “La valutazione la fa il mercato. I prezzi dei giocatori sono tutti lievitati. Per me è stato un motivo di orgoglio essere pagato tanto. Voglio ricordare che quando il Milan mi ha comprato ero reduce dalla mia miglior stagione al Genoa, tanto da essere finito in Nazionale. Me ne hanno dette di tutti i colori? Non me ne è fregato niente. Il calcio è fatto di alti e bassi. In questi due anni mi sono sposato e ho avuto un figlio: ho riconsiderato la mia scala di valori, ho capito che nella vita ci sono cose più importanti di un infortunio. Le difficoltà mi hanno fatto maturare, ma più ancora mi hanno fatto maturare matrimonio e paternità. Certo ho avuto la conferma che in Italia il calcio è vissuto in maniera diversa – e peggiore – rispetto ad altri campionati. E questo fa di noi un Paese arretrato”.
L’estero, già. In passato la possibilità di lasciare l’Italia c’è anche stata. Direzione? Spagna: “Ma non me la sono sentita. Adesso dico che noi calciatori italiani dovremmo aprirci di più all’idea di partire”. Il difetto della mentalità nostrana? Pensare troppo alla tattica: “In Italia si lavora troppo sulla tattica e poco sulla tecnica. Per questo mi piace il gioco del Genoa, fatto di duelli individuali. Alla fine, nell’uno contro uno, vince il più forte. In Italia si predilige il giocatore di quantità e non di qualità, in Spagna è il contrario. Noi insegniamo la diagonale ai bambini di dieci anni: in questo modo, da adulti, penseranno prima a difendere e poi ad attaccare”.
Commento finale dedicato al ruolo ‘preferito’ e ai valori eredita da nonno Angelo: “A me piace toccare il maggior numero possibile di palloni e poi inserirmi in area avversaria. Quindi, il mio ruolo è nei due centrali di centrocampo, o mezzala in un centrocampo a tre. A mio nonno devo molto, mi ha fatto capire cosa significhi veramente la parola sacrificio. Lo si capisce solo in bicicletta. Io dopo un allenamento di un’ora e mezza sono morto, poi penso a nonno Angelo e dico: lui sì che faceva fatica”.