‘Porta in alto la mano…’. Locuzione canora sì, ma con un riferimento calcistico importante: di quelli davvero difficili da dimenticare. Tra amarcord e un pizzico di sana nostalgia. Perché se ami il calcio, esso contribuisce a scandire il fluire incessante del tempo della tua vita. E, allora, capita di collegare un qualsiasi avvenimento al gol del tuo idolo oppure alla vittoria della tua squadra del cuore. Tanto per tornare e completare siffatta locuzione… ‘Segna Ciccio Tavano’. Si apre istantaneamente un mondo di ricordi. Vuoi per la tendenza della nostra mente a ricollegare tutto alle immagini, vuoi per i suoi gol. E quell’esultanza: strana, originale ma anche – almeno apparentemente – criptica e indecifrabile.
Racconta Tavano, con il classico sorriso di chi ne ha affrontate tante di sfide… e ne ha vinte tutte. O quasi. Estate 2006, undici anni fa (tempus fugit). I Mondiali, il gol di Materazzi, Cannavaro che alza la coppa al cielo. L’entusiasmo che pervade e scalfisce ogni singola via di qualsiasi città dello Stivale. Ah, che rimpianto per Tavano… “Venivo da 19 gol in Serie A con la maglia dell’Empoli, Lippi mi aveva inserito nella lista dei preconvocati per lo stage finale a Roma. La domenica prima mi infortuno, vado lo stesso Roma. Il tempo di visitarmi, di dirmi che non avrei recuperato e di conseguenza che non sarei potuto andare comunque al Mondiale. Il rimpianto più grande della mia carriera”. Che prosegue in Spagna, al Valencia. Dall’Arno al Turia, ‘di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno’. La fuga e la vittoria, la reggia e il triste esilio. Sic transit gloria mundi: tanto, troppo in fretta. Addentata da un tempo divoratore, che non ha né passione né compassione. “Realisticamente è durata una settimana. Appena sette giorni dopo il mio arrivo ho saputo che l’allenatore, Quique Sanchez Flores non mi voleva. Io me lo chiedo ancora oggi, un pensiero che non mi da pace quasi: perché spendere 10 milioni per un giocatore che non vuoi? Per me era l’opportunità della vita, ad aprile mi aveva cercato anche l’Inter. Ero partito felice per la Spagna e invece…”. La realtà – come spesso accade – in perfetta distonia con la fantasia, il tedium. Mesi difficili, senza sorriso. “In settimana facevo tutto con la squadra, poi la domenica quando i miei compagni andavano a giocare…io ero costretto a tornare a casa! L’unica cosa bella - racconta Tavano ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com – è stato l’esordio in Champions…voluto dal pubblico! Gridavano ‘Tavano, Tavano’ e allora l’allenatore mi ha fatto entrare, senza che nemmeno mi scaldassi. Loro avevano un po’ di fiducia in me, non si aspettavano quell’epilogo…”.
A gennaio il rientro in Italia, alla Roma. Pochi giorni per ritrovare il sorriso e “fare le mie partite. Allenarmi con Totti è stato un vero privilegio”. Ma quei 10 milioni per il riscatto sono un onus, un topos costante che ritorna. Ineluttabile. “Ma io glielo dissi, al Valencia non ci sarei più tornato avrei perso i soldi e tutto, non mi fregava nulla. Io volevo soltanto sorridere e giocare. Due cose che lì non potevo avere”. E che poi sono le uniche che contano: più di qualsiasi contratto milionario. Perché i soldi – secondo una prassi consuetudinaria che va diffondendosi e meriterebbe forse di essere smentita in partenza – non sono caput et fundamentum della felicità. “Per fortuna mi prese Spinelli al Livorno, dove peraltro è nata la mia famosa esultanza”. Ecco, appunto…sveliamo il celeberrimo arcano. Mani sopra ai capelli, come a voler mimare un qualcosa. Ma cosa? “Una sera io e Francesco Volpe eravamo andati a cena fuori e avevamo bevuto qualche bicchiere di troppo. Io ad un certo punto, verso il dolce, gli ho fatto questo gesto per mimargli che ero un po’ brillo. Lui subito mi fa… ‘Bene, allora se segni domenica devi esultare così’. Era la prima giornata di campionato, feci tripletta. E via con l’esultanza… Che avendomi portato bene ho continuato e continuo a farla”.
A Empoli poi, era diventata un’abitudine: come il pranzo della domenica. Miglior marcatore della storia, d’altronde certi amori non finiscono… “E non finiranno mai. L’azzurro dell’Empoli ce l’ho nel cuore, per me è una seconda famiglia. Spero un giorno di tornarci, da dirigente chissà. Ora guardo tutte le partite in tv e sono il primo tifoso”. Gratitudine e riconoscenza, valori veri Tavano. Non dimentica. Soprattutto le sue origini. ‘Impara dal passato’. No, non è uno dei comandamenti. Ma l’input che ogni individuo dovrebbe seguire per dare un senso logico e sul quale costruire la propria vita… “A scuola non c’andavo quindi se fossi rimasto al mio paese avrei fatto o il muratore o il disoccupato. In estate andavo a lavorare il tabacco con mio zio. Piantavano il tabacco e noi lo andavamo a mettere sotto le serre. La sera tornavo a casa nero: sulla faccia, sulle mani, dappertutto. Era massacrante, ma è servito. Soprattutto per farmi capire l’importanza dei sacrifici. A me nella vita – calcistica e non – nessuno mi ha mai regalato nulla. Ho ottenuto tutto con il sudore della mia fronte”. Una riscoperta valoriale importante, un esempio per i più giovani. In un mondo, quello attuale, dell’hic et nunc. Dove il carpe diem ha abbandonato la sua connotazione originaria, diventando il manifesto per giustificare qualsiasi nefandezza.
Ora è tornato a vivere a Firenze, per avvicinarsi e stare con la famiglia. Gioca al Prato in Lega Pro… “E lo farò fin quando le gambe reggeranno. Perché questo non è solo il mio lavoro, è la mia passione”. Firenze, vent’anni fa. L’arrivo a Santa Maria Novella per firmare il primo contratto con la Fiorentina. Tutto sembrava così grande, inafferrabile… “E mio padre che è stato tutto il giorno a cercarmi in paese perché non sapeva dove fossi andato. I cellulari non c’erano…”. Era un altro mondo: meno veloce, più romantico. Non si può tornare indietro, è vero. Ma si può ricordare – con un bel sorriso – ciò che è stato. E allora, Ciccio: ‘Porta in alto la mano…’.