Borsone in spalla, sguardo che scintilla di una falsa rabbia ed un labbro vicino a distendersi per un sorriso dal retrogusto amaro. "Andiamo, dai, per stavolta hai vinto tu…", incrociando gli occhi illuminati di gioia del piccolo Paolo. Per Cesare Maldini le parole "cedere" o "perdere" difficilmente potevano trovare spazio nel vocabolario di famiglia: per uno che verrà ricordato dalla storia come primo capitano del Milan capace di alzare la Coppa dei Campioni, tra i tanti trofei conquistati, dopo tutto non poteva che essere così. Niente sconti, fatta eccezione per qualche strappo alla regola: moglie e figlie a spingere per portare Paolo al primo provino, dopo tante partitelle e tornei vinti con amici e compagni nell'oratorio San Pio X a Milano, e Cesare costretto a cedere. Nonostante di calcio, in famiglia, non si parlasse mai. Per scelta.
Nel 1978, a 10 anni, Paolo Maldini è chiamato alla prima, grande decisione della sua vita, che finirà per tramutarsi in sogno. Stravede per Bettega e tifa Juventus, ma la residenza cittadina e la domanda di papà lo mettono ad un bivio: Inter o Milan, a lui la scelta. Quel provino a Linate sotto gli occhi del signor Braga, datato 12 settembre e per il quale passò, qualche anno prima, anche Gianni Rivera, lo porterà a vestire per 31 anni la maglia rossonera. Hai capito, quel bivio: con il senno di poi, trasformatosi in una scelta di vita, DNA milanista dal quale sarebbe stato impossibile separarsi. Seguendo proprio le orme di papà Cesare: tentazione da portiere, partita che gli cambia l'infanzia da terzino. E così sia.
Raccomandato a chi? Solito, stupido luogo comune, tipicamente made in Italy. Il nome è una garanzia, ma per andare in bicicletta bisogna saper pedalare. E Paolo corre, forte, macinando chilometri: la miglior risposta alle malelingue, d'altronde, non poteva che darla il campo. A 16 anni bazzica già tra Primavera e prima squadra, con gli occhi di Capello e Liedholm addosso, ed il grande salto arriva in un freddo pomeriggio del 20 gennaio 1985 ad Udine. Tuta, coperta, panchina e"tanto quando mai giocherò… Potevo già esordire contro la Cremonese, ma non se n'è fatto nulla…". Il fato, tuttavia, gli riserva un altro epilogo: si infortuna Battistini, e nell'intervallo Liedholm non ha dubbi. "Entra Paolo, dai!", tra l'incredulità comune e del suo amico Cimmino, Primavera più esperto e decisamente più quotato per l'ingresso in campo. Tempo per pensare non ce n'è: scarpe antighiaccio di due numeri più piccole prestate da Wilkins, maglia numero 14, tocco con il destro e retropassaggio a Terraneo. Frammenti di un ricordo eterno, e di un esordio in Serie A divenuto realtà. Con il posto da titolare guadagnato, appena qualche mese dopo, da vero e proprio jolly difensivo.
Il resto viene da sè. Un predestinato dalla personalità enorme e dal carattere forte, fotocopia del padre per eleganza, correttezza e trattamento di palla, sempre portata a testa alta. Gocce di un nettare deistico che Maldini sorseggerà per tutta la sua carriera, clamorosamente svoltata grazie all'arrivo di Silvio Berlusconi ed Arrigo Sacchi in rossonero. Liedholm gli ha insegnato a giocare con la testa fredda ed il cuore caldo, Sacchi lo trasforma da semplice fluidificante a terzino capace di sovrapporsi ed attaccare la profondità. Tra allenamenti durissimi ed una filastrocca difensiva immortale (Tassotti-Costacurta-Baresi-Maldini) diventa parte del Milan più bello e vincente di sempre, consegnato poi nelle mani di quel Fabio Capello che già aveva allenato Paolo in Primavera, e che lo renderà semplicemente padrone di se stesso. Pilota automatico, rientra e spinge quando vuole, i tempi non li sbaglia mai: una consapevolezza nei propri mezzi disarmante, perfezione ancor più completa grazie a quel numero 3 tatuato sulla schiena.
Dominare nel Milan degli invincibili non gli è bastato, così come vincere 3 Coppe dei Campioni negli anni '90. Ha voluto fare di più, creare una di quelle storie romantiche che il mondo del pallone mai potrà scordare: alzare la Coppa dalle grandi orecchie, da capitano, 40 anni e 7 giorni dopo suo padre. Da Wembley al teatro dei sogni di Manchester, dalla doppietta di Altafini al rigore decisivo di Shevchenko, dal Benfica alla Juve. La sua Juve, quella che da bambino apprezzava e che è stata poi dimenticata in fretta. Com'è strana la vita, a volte: anche quando ti ritrovi ad segnare al primo minuto di una finale di Champions, una rarità, perdendola dopo aver avuto 3 gol di vantaggio. Ma è proprio lì, nei momenti difficili, che un capitano viene fuori: una bandiera si vede quando il vento soffia forte. Squadra in frantumi, delusione enorme, contestazioni davanti alle quali Paolo è il primo a metterci la faccia: uomo, prima che capitano e calciatore, mai propenso a un tradimento nei confronti della propria maglia. È stato capace di incollare di nuovo tutto, reagendo e giocando la finale-rivincita contro il Liverpool reduce da mesi di antidolorifici e su un ginocchio vicino a sgretolarsi. E di vincerla: figuriamoci, se poteva perderne due di fila. Per un attimo si scorda di quell'impresa, dopo il risveglio dall'operazione al ginocchio in Belgio, ma in quel momento è solo la realtà ad esser distorta: quel sogno è tutto vero.
5 Coppe dei Campioni, 7 Scudetti, 3 Coppe Intercontinentali, 5 Supercoppe Italiane, 5 Supercoppe Europee e una Coppa Italia. Rimpianti? Pochi. Se non l'aver salutato San Siro, nel maggio 2009 e nel giorno del ritiro, con lo stesso sorriso a metà apparso sul volto di papà Cesare 31 anni prima, in occasione di quel provino che gli cambiò la vita: applausi da compagni, tifosi ed avversari, qualcuno in meno da una curva con la quale il rapporto non è mai stato idilliaco. Ma di fronte ad una carriera così, tutto passa in secondo piano. Eleganza, correttezza, testa alta. Sempre. E quel numero 3 sulla schiena, che solo i suoi figli potranno indossare in futuro nel Milan: Dante, Commediamente parlando, l'avrebbe collegato alla perfezione. Il mondo del calcio ha optato per la stessa soluzione. Giù il cappello e buon 48º compleanno al miglior quartogenito che mamma Marisa avrebbe mai potuto desiderare. E che papà Cesare, ora, guarderà dall'alto: tanti auguri, Paolo.