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Data: 08/03/2017 -

​Storia di una bambina che ha detto sì ai tacchetti e indossa la numero 10

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Sono nata in una famiglia in cui si è sempre mangiato pane e calcio. Mio padre, mio nonno, mio fratello e anche mia madre, hanno da sempre una squadra del cuore e hanno perso poche partite allo stadio. Io, da quando ne ho memoria, ero contesa tra le tifoserie di famiglia. C’era chi mi regalava il ciuccio di una curva, chi la maglietta dell’altra. Mi mettevano di fronte alla tv e mi facevano ripetere “gol”, spingendo perché mi riconoscessi in una fede da coltivare giorno dopo giorno. Crescevo tra le Barbie, il Lego e la Serie A, ma mi hanno iscritta a ginnastica artistica, poi a danza e a nuoto; e tutto sommato mi piacevano: le gare regionali in vasca, il saggio di fine anno sulle note di Chopin al teatro comunale e le sessioni di ritmica nella palestra della scuola.

Ma poi, durante un’estate caldissima, mi è venuto istintivo seguire mio fratello e i suoi amici che andavano a giocare a calcetto sulla spiaggia. Ricordo nitidamente che ridacchiavano di me, che ero più piccola, meno agile e meno abituata a star dietro a un pallone. Fino a quel momento avevo assorbito il calcio solo attraverso la Domenica Sportiva, i risultati e i “gol” gridati con papà per le vittorie della nostra squadra (sì, perché alla fine mi sono schierata con lui). Ma più crescevo e meno mi bastava vedere i campioni in campo, perché in campo volevo starci anch’io. E così ho iniziato a disinteressarmi della danza, della ginnastica artistica e di qualsiasi attività mi venisse proposta al di fuori del calcio. La mia strada era quella, che fosse in spiaggia con gli amici di mio fratello o all’oratorio nel fine settimana, non faceva differenza. Mi divertivo solo con la palla tra i piedi. Così come mio fratello: ma mentre per lui era normale essere iscritto alla scuola calcio del paese, per me c'erano altre opzioni. Almeno finché l’ho spuntata con mio padre, che per sfinimento si è deciso a cercare una squadra per la sua piccola aspirante calciatrice. E così, scarpe, pantaloncini, quota d’iscrizione e la bella sensazione di aver trovato un gruppo di ragazzine della mia “stessa pasta”.

Oggi sono cresciuta e con me è cresciuta la passione con cui scendo in campo la domenica con le mie compagne di squadra. Sono rimasta bassa di statura, ma è l’altezza giusta del fantasista (porto la numero 10 come Messi). Segno tantissimo su punizione, ho un sinistro chirurgico e diciamolo, dai venti metri sono meglio di mio fratello. Però gioco in Italia, e nonostante militi in Serie A, ci sono troppi interrogativi a cui non so dare risposta. Perché se palleggio sulla spiaggia dove mi sono innamorata del pallone la gente si ferma e mi osserva stranita? Perché sui campionati femminili non ci sono gli occhi delle tv, del pubblico e dei media? Perché se nel 2017 le donne manager hanno dimostrato di essere più produttive ed efficienti, sulle calciatrici gravano sempre i pregiudizi sulla tenuta fisica, sulla tecnica e sull’attitudine a questo sport?

Questa è la biografia di una calciatrice immaginaria, irreale ma verosimile, perché questo sport, declinato al femminile, è in continua evoluzione in Italia così come nel mondo. Ci sono sempre più bambine che scelgono il pallone e non il body. E' doveroso riservare loro la stessa attenzione e soprattutto lo stesso rispetto che si riserva ai maschietti che i papà, con la più autentica naturalezza, portano alla scuola calcio fin dalla tenera età.

Auguri a tutte le donne che hanno detto sì ai tacchetti e sognano la numero 10.



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