"Qualcuno ha il salvapelle?”. Prendo i parastinchi da mettere solo ora dopo il riscaldamento, prima il destro e poi il sinistro; la maglietta da titolare era piegata sulla panca come al solito, senza nome, ma in fondo non serviva per sentirla ugualmente mia.
La prendo e vado a metterla in bagno, lo faccio sempre, non mi definirei un ragazzo troppo superstizioso ma nello spogliatoio ognuno volente o nolente ha una specie di rituale, una serie di movimenti e gesti da ripetere gelosamente prima di ogni partita.
Io andavo a mettere la maglietta in bagno, non saprei spiegare perché o come ho iniziato, probabilmente perché è l’unico luogo dello spogliatoio dove puoi star da solo con te stesso, mi caricava.
Bussano alla porta, è l’arbitro che subito richiama all’ordine il caos di chi è già in fila per la chiama e di chi forse è volutamente in ritardo a causa del “rituale”. Sarà un caso ma in ritardo sono sempre gli stessi.
“Bene ragazzi, se non avete domande buona partita a tutti”. Esce ed in cerchio ci carichiamo per quella che è una partita decisiva, era la prima di un trittico di scontri al vertice tra cui il derby, e i soli quattro punti di vantaggio dai rivali oggi non ci permettevano passi falsi se avessimo voluto accedere direttamente alle finali nazionali.
Era il solito pre-partita, un limbo frenetico dove il tempo immobile, scandito solo dal battito agitato dei tacchetti sul pavimento, non passa mai.
Prima di uscire dallo spogliatoio il fisioterapista mi da la mia solita pasticca antinfiammatoria, spero che nel giro di dieci minuti inizi a fare effetto, oggi il tendine fa più male del solito.
Ho il tempo di guardarmi attorno, siamo tutti molto silenziosi, anche Andrea che di solito stempera la tensione ridendo di continuo. Io ero carico.
Non potevo non esserlo; da gennaio in poi avevo passato due mesi a combattere infortuni su infortuni, tra dita rotte e tendiniti, non fermandomi mai, soffrendo, perché non volevo mollare, non potevo.
Volevo tenermi il posto tra i primi undici che da un mese e mezzo non era più mio; tutto questo mi viaggia nella testa in loop, mentre in fila stiamo entrando in campo.
Avevo tutte le mie ragioni per essere agitato, è l’ultimo anno di Primavera, ogni partita è un po’ come un esame, non puoi sbagliare, anche se forse si capisce troppo tardi che è l’unico anno che conta davvero di tutto il settore giovanile.
Tutto quello che sei e probabilmente sarai come giocatore si decide in quelle trenta partite; ma difficilmente si è abbastanza maturi per vederlo già come un lavoro.
Ci fermiamo a metà campo a salutare i tifosi e i genitori venuti a vederci, oggi erano particolarmente tanti, infatti faccio più fatica del solito a trovare mio padre tra la pioggia di mani e bandiere che si mischiavano nella tribuna.
Eccolo li, è in piedi con il suo solito zainetto marrone, è agitato più di me lo riconosco dal solito piede che batte per terra. Lo saluto, ringraziandolo con lo sguardo per tutti i km che ha fatto anche oggi per venirmi a vedere, nonostante tutto.
Torno in apnea. Abbraccio i miei compagni, siamo tutti a mille lo si vede nei loro occhi, palla avanti, palla indietro, inizia la partita.
Sono passati pochi minuti ed ho già avuto modo di far vedere con qualche galoppata delle mie che il piglio è quello giusto. Il 7 avversario mi punta, su di lui ho visto duecento video so che si allungherà la palla per sfidarmi sulla corsa;
ho capito tutto metto il corpo e rubo palla, probabilmente lui non ne ha visti altrettanto su di me sennò saprebbe che non aspetto altro che una sfida sulla corsa. La passo e riparto, ma qualcosa mi blocca. Una fitta al quadricipite.
Ecco ora zoppico ma cerco di non farlo notare un po’ perché spero che ignorare il dolore lo faccia passare, un po’ perché dopo 10 anni di “carriera” giovanile impari a conoscere il tuo corpo e so che è sicuramente abbastanza grave da portare i medici a dire all'allenatore di farmi uscire e io non voglio uscire, non dopo cinque minuti nella partita del mio riscatto.
Probabilmente è una scelta egoista ma appena due anni prima aver preso la decisione opposta mi è costato di fatto quattro mesi fuori-rosa per “assenza di carattere” ma soprattutto mi è costato tutta la fiducia che avevo in me stesso.
Quindi no non esco, non per scelta mia almeno, voglio spaccare il mondo io.
La partita continua e andiamo in vantaggio sul solito schema da calcio d’angolo, sembra banale ma al tiro arriviamo sempre.
Sopporto il dolore che mi perseguita ad ogni scatto, ad ogni terzo tempo per anticipare il mio avversario, ad ogni rincorsa, ad ogni diagonale e come se non bastasse l’arbitro mi ammonisce per uno stupidissimo intervento nella tre quarti avversaria.
Rientriamo negli spogliatoi, l'allenatore inizia a ridirci le direttive che ci ripete come una preghiera da tutta la settimana, ma il mio unico pensiero è quello di farmi aiutare dal fisioterapista a soffrire il meno possibile, mi fa ancora molto male, ma quando a farti male è un muscolo grande come il quadricipite c’è poco da fare e lo sai.
Il secondo tempo scorre come al solito molto più velocemente del primo e a dieci minuti dalla fine siamo ancora 1-0, io nel frattempo non stavo più giocando come avrei voluto.
Mancano 10 minuti e l'allenatore per paura di una seconda ammonizione mi sostituisce.
Respiro; ancora una volta non era andata come sarebbe dovuta andare.
Si congratula spiegandomi la sostituzione ma io sono devastato, non ascolto neppure me stesso, do la mano ad ogni mio compagno seduto in panchina ma guardo il sedile e non mi ci riesco a sedere, mi appoggio quindi al divisorio che mi separa dalla tribuna con il prof che cerca invano le parole giuste per consolarmi; e tutto piano piano sbiadisce e finisce.
Siamo al 94’, 1 a 1.
Se avessi saputo che quella sarebbe stata l’ultima partita che avrei giocato con un minimo di speranza positiva di potercela fare; forse l’avrei preparata diversamente, probabilmente l’avrei vissuta diversamente, e invece da lì in poi rimasi in quei venti metri di prato che mi separavano dalla sostituzione, un po’ incredulo forse altrettanto sconfitto quando ancora oggi non sono riuscito a uscire.
Da li in poi una parte di me non vedeva semplicemente l‘ora che finisse tutto sopprimendo la parte genuina che invece con il sorriso ci avrebbe creduto ancora.
Da li in poi ho iniziato a vivere tutto in apnea, affogando piano piano nello scorrere di ogni errore ed ogni scelta, finché un giorno è tutto finito ed ho ripreso a respirare. O viceversa.
Ho sognato di diventare un calciatore professionista fin da piccolo, e come ogni ragazzo che inizia questo sogno in cuor mio ci ho sempre creduto.
Ho fatto tutta la trafila del calcio giovanile; dal dilettantismo della squadra di quartiere al professionismo che ti regala un top team di serie A.
Ho avuto la fortuna di giocare per la squadra che ho sempre tifato, ho cambiato città e ho vinto lo scudetto primavera, ho vissuto tutte le esperienze che ogni ragazzo che si affaccia al calcio giovanile avrebbero pagato per vivere, eppure d’un tratto è finito tutto ed il mio sogno non l’ho mai realizzato.
Sia chiaro non ho smesso per un infortunio, non ero una testa calda, non ho mai avuto teorie complottistiche sugli allenatori o sul sistema-
Ho smesso semplicemente per mia scelta, drammaticamente per mia stessa mano oserei dire.
Ho smesso perché mentalmente nel momento decisivo non sono stato abbastanza forte, ho smesso perché ho messo la ragione prima del mio sogno, perché il calcio è un mondo complesso che non conoscevo e di cui forse non ho mai fatto parte.