Che cos’è la felicità? Silvio Baldini se lo è chiesto spesso negli ultimi anni. Precisamente dal 5 ottobre del 2011, il giorno del suo ultimo esonero a Vicenza. Sconfitta casalinga contro il Varese di Rolando Maran, l’amico di una vita. Da quel giorno ha cercato la felicità lontano dagli stadi. La famiglia, la casa a Marina di Massa, le battute di caccia con i suoi cani, le passeggiate sulle Alpi Apuane. Tanti silenzi, poche risposte. Diverse proposte per tornare in panchina neanche prese in considerazione. “Non provavo più gioia nel fare il lavoro che avevo sempre fatto. Non potevo barare a me stesso”.
Meglio restare a casa. E aspettare. Fino a scoprire che quella felicità smarrita è lontana solo sei chilometri. La distanza che separa casa sua dallo stadio di Carrara, il teatro della sua nuova avventura da allenatore. Lo stesso da cui era partita la sua scalata verso la serie A. Silvio Baldini, 59 anni a settembre, ricomincia dalla Carrarese in serie C. E sceglie di farlo a modo suo: gratis.
“Era l’unico modo per dimostrare ai dirigenti che mi hanno chiamato che ci tenevo veramente a fare qualcosa per loro. Il presidente Oppicelli quasi non ci credeva. Dovranno solo pagarmi una penale da 500mila euro se mi cacciano. Oppure un blocco di marmo se dovessi vincere il campionato. Poi se qualche dirigente prova a dirmi chi devo mettere in campo, prendo la macchina e vado via”, racconta Baldini con un sorriso. “I soldi non m’interessano adesso. Complicano sempre tutto nel calcio. Prendi un gioiello di questa terra come Bernardeschi. Finiranno per rovinarlo. Perderà la voglia di giocare a pallone pensando a quelle cifre che gli girano intorno. Troppo business. Guarda là, questa è la mia ricchezza”.
Baldini dice questa frase indicando le Apuane, mentre passeggiamo all’interno di una cava di marmo dismessa. Monte Pasquilio, oltre 800 metri di altezza. Un rifugio dell’anima da sempre per l’allenatore massese. Il luogo in cui ha maturato una scelta in controtendenza rispetto al calcio milionario di oggi.
“Per me era fondamentale ritrovare la passione che avevo quando allenavo i dilettanti. La pura passione per il gioco. La voglia di prendere un gruppo e farlo diventare una squadra. Per questo porterò la squadra in ritiro in una caserma militare. Camerate da otto, niente televisione in camera, bagno in comune. Chi non si adatta, verrà messo subito da parte. Per me il gruppo viene prima di tutto. Nel mio calcio è il più forte che deve mettersi a disposizione del più debole. Dentro e fuori dal campo. Se i miei ragazzi capiranno questo, ci toglieremo tante soddisfazioni”.
Baldini ha la luce negli occhi mentre pensa alla sua prossima Carrarese. Se la immagina come un’oasi in uno sport che non riconosce più. Un mondo guidato da logiche per lui inaccettabili.
“C’è troppa ipocrisia, troppa falsità. Ormai comandano direttori sportivi e procuratori. Si mettono d’accordo per fare affari, senza pensare agli interessi dei calciatori. Mi ricordano quei giocatori di carte che barano. Sono in cinque al tavolo e quattro sono d’accordo, per spartirsi la torta. È un sistema che si autosostiene così, puntando sempre di più all’interesse dei dirigenti e sempre meno a quello del gioco. Prendi un gioiello di questa terra come Bernardeschi. Finiranno per rovinarlo. Perderà la voglia di giocare a pallone pensando alle cifre che gli girano intorno”.
Scuote la testa, poi riattacca: “È normale che siano venuti a mancare i valori basilari: la lealtà, la semplicità, l’amicizia. Cose che non mancheranno nella mia squadra”. Silvio Baldini guarda sempre avanti. Non ha rimpianti per una carriera che gli ha riservato spesso delusioni. Inutile chiedergli di tornare sul calcio rifilato al collega Domenico Di Carlo durante Parma-Catania. Sono passati quasi dieci anni da quella giornata di agosto. Un gesto che probabilmente gli ha chiuso tante porte in faccia e che preferisce dimenticare. Era l’alba dell’ultima stagione in serie A, un anno che non riuscì a chiudere sulla panchina siciliana nonostante il raggiungimento di una storica semifinale di Coppa Italia.
Meglio ricordare gli anni d’oro, quelli di Empoli. Soprattutto quel 2002/2003, primo anno nel massimo campionato, dopo una cavalcata trionfale in B.
“La vittoria in trasferta a Como all’esordio è il ricordo più bello della mia carriera. Iniziammo la stagione vincendone quattro consecutive fuori casa. Un record per una neopromossa”.
In porta c’era Gianluca Berti, ieri capitano e oggi nuovo direttore sportivo della Carrarese di Baldini. Uomo di fiducia del mister. Così come Totò Di Natale che esplose in quella stagione, segnando 13 gol. Uno più speciale degli altri: 19 aprile 2003. L’Empoli batte in trasferta un Milan che sarebbe diventato campione d’Europa poche settimane dopo. Il passo decisivo verso la salvezza. Luci a San Siro. Roberto Vecchioni del resto è il cantante preferito di Baldini.
“Antonio lo sento ancora. Probabilmente è il calciatore più forte che ho allenato ma di lui ho soprattutto un grande ricordo umano. Quello che ho anche per Daniele Adani. Con lui non parliamo con l’anima, abbiamo un rapporto che va oltre il calcio. È una di quelle persone che porto sempre nel cuore”.
Scendiamo a valle. Una sosta in un negozio di alimentari per assaggiare “la focaccia con la mortadella più buona del mondo”. Un bicchiere di cedrata e rotta verso casa. Lungo la strada i compaesani salutano l’allenatore con affetto. Non lo considerano una celebrità, ma un amico di osterie e un compagno di caccia alle beccacce.
È questa semplicità che Baldini non cambierebbe con nessun altro luogo. “Se mi offrissero tanti soldi per allenare in Cina, non ci andrei. La vita è corta, allungare il conto in banca non ti fa essere più felice. Io sto bene qui. Con la mia famiglia, i miei cani, in mezzo alla mia gente”.
Claudio Giambene