Uno sguardo al cielo e uno al campo. Da due mesi Luis Rodríguez, per tutti El Pulga, vive il calcio così. Come una dedica continua da fare a suo padre, l’uomo che più di tutti ha voluto questa vita per suo figlio ma che adesso, nel momento più glorioso della sua carriera, non può stare con lui.
Trenta pesos, un sacrificio economico enorme per i tempi. Fu il prezzo pagato dal papà, affettivamente chiamato Pocholo, per regalargli all’età di 10 anni il primo paio di scarpe da calcio, dato che era stufo di vederlo giocare scalzo. Gli inizi del Pulga Rodríguez sono stati così, in una storia tipicamente sudamericana cominciata in un ambiente molto povero e tutt’altro che facile nella regione del Tucumán.
A volte faceva il muratore, altre l’imbianchino: poca istruzione, le esigenze economiche della famiglia erano altre. Aveva nove fratelli, quattro di loro dormivano nella sua stessa stanza. Anche Walter, il più prezioso di tutti, quello che gli fece capire di dover tornare al calcio professionistico quando aveva pensato di mollare. Da ragazzo fu selezionato per un torneo alle Canarie, lo teneva in prova l’Inter e finì per essere vicinissimo al Real Madrid dopo esser stato miglior giocatore della competizione, solo che per colpa di un procuratore e delle sue false promesse tornò delusissimo in Argentina.
Lì giocava a calcio per vivere: 70 pesos per disputare tre partite in fila, tanto per la sua famiglia, ma l’ambiente era ai limiti dell’horror. Filo spinato a dividere il campo dagli spalti e tante brutte entrate da dover evitare per poter andare in porta. No, non era l’ambiente per lui e fu così che Pocholo e Walter lo convinsero a giocare per la squadra del suo paesino, l’Unión Simoca.
Lì divenne una sorta di leggenda locale: trovò l’appellativo di Pulga, che oltre a essere lo stesso di Messi è anche quello più adatto a descrivere un ragazzo di soli 157 centimetri di altezza. Un piccoletto che però con i piedi incantava: segnò 12 gol in una partita ufficiale, la più bella giocata sotto gli occhi de padre.
Ha quindi lasciato la sua casa per andare a giocare da professionista con l’Atlético Tucumán, principale club della sua regione di cui è stato grande simbolo, prima di vestire il rojinegro con Newell’s prima e Colón poi. Ma è proprio con l’Atlético che ha lasciato le sue immagini più divertenti: una su tutte quando nel derby tucumano contro il San Martín per velocizzare il gioco si mise a guidare il caddy che trasportava un avversario infortunato, uno dei tanti episodi di un grandissimo personaggio.
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Oggi è un calciatore di grande qualità, confinato nel suo ambiente sì, ma capace di trascinare una squadra come il Colón, che nella sua storia non ha mai vinto alcun titolo, fino alla finale di Copa Sudamericana. La partita più emotiva di questo percorso è stata sicuramente la semifinale d’andata contro l’Atlético Mineiro e non solo per il prestigio di battere un club brasiliano che è stato Campione d’America. Tre giorni prima di quella partita era morto suo padre, il Pocholo. Il Pulga ha voluto giocare ugualmente, nonostante il dolore: alla fine è sceso in campo, ha segnato e gli ha potuto dedicare il gol. Così come ha fatto al ritorno dove ha segnato la rete che ha portato la sfida ai rigori oltre al rigore nella lotteria finale che è valso la qualificazione.
La favola più bella di un umilissimo calciatore che deve tutto alla passione di suo padre e che nel momento più emotivo della sua vita non ha potuto trovare modo migliore per ricordarlo. Uno sguardo al cielo e uno al campo, appunto, per la dedica più bella in attesa di poter alzare verso quel cielo anche la Copa Sudamericana.