Affabulare è un’arte. Prendiamola come tautologia, la cui causalità è ben rintracciabile nella presenza della stessa in ogni contesto storico, fin dai tempi più remoti. Fin dalle poleis dell’antica Grecia, dove l’arte della parola era ben esplicata in una politikè fervida di libidine intellettuale e di valori che davvero condizionavano, veicolavano la stessa esistenza umana (proprio come oggi… e tre puntini non basterebbero, ne servirebbero molti di più). Dallo sviluppo dell’antica arte della parola alla virtus affabulatoria: un cammino simbiotico. Estintosi, a mio avviso, appena pochi anni fa con l’ultima nobile, autentica testimonianza dei nonni che raccontavano storie (anche di vita vissuta) ai nipoti attorno al fuoco, elemento simposiale per antonomasia.
Poi è arrivata la globalizzazione, mater orbis terrarum. E’ arrivato internet, la tecnologia, l’iPhone, il tablet, il pc, la tv con seimilaquattrocentocinquanta canali. E leggere libri è diventata robetta da sfigati o secchioni. Giusto così, siamo o non siamo nell’epoca dei luoghi comuni? Sicuramente siamo schiavi di un’ipertrofia globalizzante che ci ha fatto perdere la vera dimensione umana: la socialità!
Raccontiamo una favola perché essendoci di mezzo il calcio (veicolo onnicomprensivo di comunicazione con i più giovani da svariati anni a questa parte…) sicuramente potrebbe portar con sé un certo numero di proseliti. E poi, sinceramente, i protagonisti se la meritano tutta. E’ la favola di Pordenone, inteso come città prima che come squadra di calcio (perché lì davvero si è riscoperta la virtuosità di una dimensione calcio strettamente interconnessa alla territorialità).
Partiti da lontano, lontanissimo. Dal niente, dall’Eccellenza. Arrivati a San Siro, alla Scala del calcio. Con un cammino da encomio in quella Coppa Italia tanto snobbata da tutti (d’altronde al giorno d’oggi ciò che non porta un lucro diretto non può interessare, in ogni ambito della vita). Dai campi con mezze zolle in erba e mezze in terra dell’hinterland friulano, all'apogeo del pallone. -5 come ricorda il profilo Twitter del Pordenone, in un prosimetro di comunicazione magistrale tra autoironia e sana adrenalina. Un mix che colora di verde (e nero) una favola tout court, in un mondo nel quale prendersi un po’ in giro è considerato alla stregua della Hybris greca in nome di una non meglio precisata ‘reputazione e immagine sociale’.
Raccontiamo questa favola per mezzo delle parole di un eccellente cantastorie (e attaccante), Simone Magnaghi. Che segna (in Coppa come in campionato), sogna, sorride, fa sorridere e solo per un pizzico di sfortuna non gioca al Fantacalcio… “Purtroppo sono arrivato l’ultimo giorno di mercato e le rose eran già fatte, peccato cavolo! Il ‘metodo Fantacalcio’ ha funzionato a Cagliari, ci riproveremo contro l’Inter. Anzi, chiamo subito Pietribiasi che ha Icardi. Lui è andato via ed io ho preso proprio il suo posto, ma sarà molto gentile nel comunicarci la fantamedia del nueve nerazzurro. Peccato soltanto che non giochiamo contro la Juventus, che Misuraca si è comprato Dybala-Higuain-Douglas Costa e sa tutto! Se giocano, se non giocano, assist, gol, quanto corrono ecc… (ride)”. Nel mondo del banale, del serio, dello scontato, un capolavoro verbis quello di Magnaghi, che giustamente precisa… “Ma meglio di tutti è andata a Maza con Immobile, peggio a Burrai con Kalinic”. E tu? “Io mi tengo informato, non si sa mai eh…”. Cultori del Fantacalcio in quel di Pordenone. “I ragazzi conoscevano il Cagliari meglio di me…sono tutti Fantallenatori!”. Pensieri e parole di mister Leonardo Colucci, al termine dello straordinario 1-2 in terra sarda.
Ecco, a proposito, ma che emozione è stata? “Mmmm, ci aspettavamo il +1 di Joao Pedro e temevamo fortemente il +3 di Pavoletti, invece è andata alla grande. Scherzi a parte, una di quelle emozioni che ti porti dentro per tutta la vita. I secondi finali che non passavano mai, il coro nello spogliatoio ‘Ce ne andiamo a San Siro’. E poi, soprattutto, il fatto che a San Siro ci andiamo veramente…”. Che poi tu lo conosci bene… “Esattamente! Davanti alla tv o in primo anello a vedere il mio Milan, in questo senso lo conosco benissimo. Cuore milanista, ricordo la prima volta alla Scala con papà, un Milan-Samp e davanti il trio Kakà-Inzaghi-Sheva. La so a memoria la formazione, forse in camera ho ancora il foglio della distinta, ma bastavano quei tre…”. Un derby, in campo e fuori… “Considera che il mio migliore amico è interista sfegatato. L’altro giorno – racconta Magnaghi ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com – mi ha mandato un messaggio minatorio (ride). ‘Simo, a me del risultato non interessa nulla. Ma io conosco bene la tua fede milanista, quindi mi raccomando…Non fare entrate azzardate che quest’anno ci giochiamo lo scudetto’. Io non vedo l’ora di entrare nel tunnel degli spogliatoi, che poi non gioco nemmeno a Fifa, quindi non me lo posso immaginare proprio bene! Due, tre volte al giorno ho qualche flash della sfida di martedì sera. Sogno ad occhi aperti. Sogno soprattutto che questa prima volta a San Siro non rimanga tale…ma diventi una normalità! Per me e per questa splendida realtà. Non ci fanno mancare nulla, abbiamo tutto. Una società forte e ambiziosa, una città stupenda e i tifosi ci sono sempre vicino. Che dire? Forza Ramarri…”.
Un pizzico di follia e ‘gente allegra, Dio l’aiuta’. I due slogan di Magnaghi. Il 'Cobra’ di Pordenone, che però non chiede soprannomi. “Quelli soltanto, un giorno, forse se e quando sarò in Serie A”. Sana ambizione e sorriso pulito: colorato e sincero. Come i suoi tatuaggi. Sotto l’avambraccio sinistro il ritratto di mamma e papà, una tigre sul ginocchio e il numero 9 dietro al polpaccio. E se il prossimo fosse un eloquente +3 con ai lati la Scala del calcio?