Papà Cesare, gli anni al Milan. Ma anche le sconfitte con la Nazionale e il punto sul campionato attuale. Si racconta, Paolo Maldini. Al Corriere dello Sport, l’ex capitano rossonero ha riavvolto il nastro. Partendo proprio dal rapporto con il padre: “Mio papà è stato mio papà, il fatto che poi mi abbia allenato, anche quando ero capitano della nazionale, non ha fatto altro che rafforzare il nostro rapporto. Ma alla fine papà l’ho sempre visto come un padre, non come un allenatore o colui che mi ha indirizzato verso il mondo del calcio. Lui ha smesso nel ’67 a Torino, io sono nato un anno dopo e quindi non l’ho mai visto giocare. Mi hanno sempre raccontato la sua eleganza, la sua capacità di giocare la palla in anni nei quali i difensori lo facevano poco. Ho visto qualche immagine della finale di Wembley, ma non l’ho vissuto in prima persona come calciatore”. Seguire le sue orme è stata una scelta spontanea: “Prima di capire quale fosse la mia squadra, quale fosse il mio sport, io ero attratto magneticamente dalla sfera che rimbalzava. Una cosa assolutamente naturale. Credo ci sia tanto di genetica nel tramandare questa passione: con i miei figli è successa esattamente la stessa cosa. Diciamo che lui non mi ha mai spinto a fare questo sport, ha sempre rispettato le mie decisioni, anche quando ero bambino. Allora si poteva entrare in un settore giovanile solamente dopo i dieci anni compiuti e lui mi chiese se io volessi andare a fare il provino al Milan o all’Inter. Lui, che per il Milan stravedeva”.
Nei primi anni in rossonero, ecco Liedholm: “Liedholm è stato veramente fondamentale, innanzitutto ha creduto in me quando avevo solo sedici anni. Il mio percorso nelle giovanili è stato abbastanza veloce ma non senza problemi e imprevisti: avevo parecchia pressione su di me e questo non mi rendeva sempre sereno, ero un adolescente. Lui mi diceva sempre, “Non ti preoccupare, il calcio è un gioco, sei forte, divertiti”. Mi ha dato la sicurezza che un ragazzo di quell’età non può avere...”. Poi, Sacchi: “Sacchi era l’opposto. Era veramente maniacale su tutto. Non ha giocato a calcio a grandi livelli e forse per questo in tante cose faceva fatica, soprattutto all’inizio, ad essere ascoltato. Ma una volta appreso il suo credo difficilmente lo si lasciava. La svolta della mia carriera è avvenuta con Sacchi. E non solo della mia”. E Capello? “Capello mi ha portato dagli allievi nazionali alla Primavera e mi ha insegnato ad essere giocatore, come dovevo calciare, come mi dovevo comportare, mi ha fatto fare il passaggio da ragazzo a uomo, anche se uomo non ero perché comunque avevo appena compiuto sedici anni. I suoi consigli possono sembrare molto pratici, a volte un po’ banali, ma li porti dentro per tutta la vita”. E per finire, Carlo Ancelotti: “Ancelotti è stato innanzitutto un grandissimo compagno. Ho giocato con lui cinque anni ed è stato un vincente che ci ha permesso di creare qualcosa di speciale al Milan. E poi una persona straordinaria, veramente fuori dal comune. Io credo che a lui abbiano giovato le esperienze fatte con vari tecnici. Sembra aver preso il meglio da ciascuno”.
Dai successi al Milan alle sconfitte in Nazionale. Con il rimpianto di esserci andato ad un passo: “Ho partecipato a quattro mondiali e tre europei, quello che mi dispiace è non aver mai vinto. Ci sono andato vicino, molto vicino. Spesso sono stati i rigori a condannarci. L’occasione più grande è stata quella del ’94, quando abbiamo perso ai rigori contro il Brasile. Ma il campionato del 1990 in Italia era quello a cui tenevamo di più. Fino alla semifinale con l’Argentina avevamo giocato il mondiale perfetto”. L’avversario più forte contro cui ha giocato? Maldini risponde così: “Ho avuto la fortuna, o sfortuna dipende dai punti di vista, di incontrare giocatori come Maradona e Ronaldo, i due più forti con cui abbia mai giocato”.
Appesi gli scarpi, per Maldini nessuna esperienza da dirigente. Per scelta personale: “Innanzitutto perché è una scelta mia, di vita. Ho fatto venticinque anni a ritmo serratissimo, ho sacrificato la mia famiglia. In questi ultimi mi sono goduto sicuramente i miei, le piccole cose, gli amici e ho avuto la fortuna di poter fare la vita che volevo. Se parliamo di calcio, io sono stato così legato alla maglia del Milan ed è difficile per me vedermi, in qualsiasi ruolo, con un’altra squadra, salvo la Nazionale. Quindi le opportunità per entrare nel calcio sono, anche per mia scelta, molto limitate”. E sul calcio italiano: “Il male? Innanzitutto gli investimenti nel calcio italiano sono diversi rispetto a quelli del calcio spagnolo e inglese. Esiste un rapporto stretto tra fatturato e risultato, è una cosa che ci accompagnerà in futuro. Ma è un fatto anche generazionale. Ci sono generazioni che sono più talentuose e generazioni meno. In questo momento c’è un cambio di generazioni, da quelli che hanno vinto il mondiale nel 2006, molti dei quali sono ancora in campo alle nuove generazioni che ancora non sono pronte per i grandi palcoscenici”. Già, il Mondiale. C’è la possibilità che l’Italia di Ventura non riesca a passare i playoff? “Purtroppo il rischio c’è perché una volta che fai i play-off, in una partita può succedere di tutto. Le percentuali secondo me sono ancora a vantaggio nostro, però è un campanello d’allarme. Naturalmente in un girone nel quale si qualifica solamente la prima e giochi con la Spagna, diventa comunque un’impresa riuscire a quali scarsi direttamente. Questo lo sapevamo anche all’inizio”.
Sguardo ancora indietro nel tempo. A San Siro si gioca l’ultima di Maldini. Tantissimi applausi, ma anche pochissimi fischi. Messi, però, fin troppo in risalto: “Sono d’accordissimo. La mia ultima partita a San Siro è proprio il perfetto esempio. C’era uno stadio pieno, commosso, tutti con le mie sciarpe, tutti che mi hanno dedicato un tributo come io volevo per la mia lunghissima militanza rossonera e però ha fatto più notizia qualche centinaio di persone che fischiava. C’è questa idea di una minoranza che comunque risalta di più della massa. Molte volte la massa è molto meglio della minoranza. In più i social network adesso diventano uno strumento terribile. Purtroppo sono usati anche male dai giornali e quindi una cosa inventata diventa una notizia e tu sei quasi costretto a dover smentire una notizia che non esiste. E’ veramente un problema che riguarda la società e riguarda anche il giornalismo, non solo quello sportivo”.
Domani, il derby. Con un occhio, ovviamente, al Milan: “E’ una squadra che ha comprato undici giocatori nuovi, credo ci sia bisogno comunque di tempo per riuscire a comporre una squadra vera. Probabilmente gli obiettivi che sembravano facilmente alla portata all’inizio, diventano comunque complicati. Inter e Milan sono due squadre che ancora non hanno espresso il loro potenziale. L’Inter ha avuto risultati, ma poco gioco. Il Milan non ha avuto risultati se non con delle squadre piccole. Quindi a livello psicologico l’Inter è avvantaggiata, la sua vittoria non dico che potrebbe estromettere il Milan dalla corsa alla Champions League, ma diventerebbero dieci i punti tra i nerazzurri e il Milan”. Per lo scudetto, invece, Maldini spera nel Napoli: “Per come gioca, e per cambiare anche un pochino, direi che il Napoli potrebbe diventare favorito. Non dimentichiamoci però che gioca in Champions League, ed è meno abituata della Juventus a due grandi competizioni contemporanee. Alla fine questo può favorire i bianconeri. Però io spero che il Napoli riesca a fare suo lo scudetto, perché sta giocando veramente un calcio spettacolare”.
Da papà Cesare ai figli. Maldini chiude così la sua intervista. Guardando in casa propria, con un po’ di nostalgia per gli anni da calciatore: “I miei figli, a differenza mia, hanno vissuto i miei ultimi anni di calciatore, assaporato la bellezza di Milanello, di San Siro, dei campioni che giocavano con me. Io credo che tutte le volte che sono venuti nello spogliatoio, allo stadio o in trasferta con me, abbiano capito che non si fa niente senza passione. Naturalmente anche il talento è necessario ma, senza la passione, il talento non è abbastanza. Hanno visto dei grandi campioni allenarsi, soffrire, infortunarsi. Hanno capito che il calcio è fatica e fantasia, estro e dedizione. Cosa mi manca del campo? Lo spogliatoio. Per me vivere in quello stanzone è stata un’esperienza entusiasmante, dal punto di vista umano. I primi mesi mi mancavano le grandi partite. Quando c’era il derby o una partita di Champions League, mi mancava da morire sentire quella tensione, quel misto tra paura ed eccitazione, che si prova quando si arriva allo stadio e si va a vedere il campo. Sono tutti ricordi che uno ha dentro. Mi creda, sono proprio quelle cose che, alla fine, mancano a chi ha sempre amato il calcio. Questo gioco folle e meraviglioso”.