Non è una maglia come le altre, proprio no. La numero 7 del Manchester United è un simbolo universalmente riconosciuto, come un'opera d'arte o un monumento. Sì, almeno calcisticamente è così. Il nuovo padrone, pronto a sopportarne gli oneri e a riceverne gli onori è lui: Alexis Sanchez. Il calciatore più "chiacchierato" in questa calda (a dispetto della temperatura) finestra di mercato di gennaio in Inghilterra. Il Manchester United lo ha strappato ai cugini del City e ha voluto riempire di significati simbolici il momento, regalando al cileno quello che di più caro ha, la maglia numero 7, appunto. Una maglia pesante, che trasuda storia e gloria da ogni poro, e che nonostante i materiali traspiranti e super-moderni dei tessuti di oggi sa essere anche pesante come un macigno. Inevitabile se si legge la storia. Chiedere, per informazioni, a Owen, Valencia (che dopo una sola stagione ha preferito "ripiegare" sulla maglia numero 25), Di Maria e Depay che negli ultimi anni l'hanno indossata, con risultati decisamente diversi rispetto agli illustri predecessori.
La casacca numero 7 dei "Red Devils" è diventata un'icona dalle parti di "Old Trafford" grazie al mito di George Best. Una parabola rapida, un vero e proprio blitz nella quintessenza del football, e poi una caduta, rapida, decisa, inevitabile. Tra genio e follia, lampi d’estro, sregolatezza e un'esistenza vissuta sul filo di lana, George Best ha impiegato pochissimo tempo, negli anni ’60, ad entrare nel cuore della gente, e altrettanto presto la sua carriera e la sua vita sono declinate, inesorabilmente. Uno squarcio, un lampo, un marchio indelebile nei pochi anni al top, quando mostrò al mondo intero una classe incredibile, fatta di serpentine ubriacanti, tunnel, pallonetti deliziosi e giocate in grado di infiammare gli spettatori. Con il tempo Best ha preferito una bottiglia di whiskey agli allenamenti, ma quello che ha fatto in 13 stagioni allo United è bastato per dare alla "number seven" il valore iconico che oggi ha nel mondo.
Da lì nasce il mito, alimentato poi dai suoi "eredi". Prima Bryan Robson, simbolo dei "Red Devils" dal 1986 al 1994 e poi, soprattutto Eric Cantona. L'estroso francese ha vinto 4 campionati in 5 anni, incantando la platea con le sue giocate, i numeri d'alta scuola ed un carattere esuberante dentro e fuori dal campo. Spesso sopra le righe e fuori dagli schemi, ha fatto innamorare i tifosi dello United. Un amore puro, pazzo e passionale. Ritiratosi a 30 anni, dopo nove mesi di squalifiche e polemiche dopo un calcione rifilato ad un tifoso, e dopo tante magie e gol d'autore. Nel 2001 in un sondaggio i tifosi del Manchester United lo hanno nominato miglior giocatore di sempre del club.
Che l'erede calcistico di Cantona potesse essere David Beckham i tifosi iniziarono a pensarlo in un pomeriggio dell'agosto 1996, quando il giovane numero 10 segnò da metà campo contro il Wimbledon. Una soluzione estemporanea e geniale, degna proprio di Cantona. Il giovane inglese stava diventando, appena 21enne, un punto di riferimento per la squadra di Ferguson. Il numero 10 iniziava... a stargli stretto. Già, perché se altrove è proprio quello il numero dei fantasisti, generalmente riservato ai calciatori con più estro e qualità, a Manchester, sponda rossa, c'è lei: la numero 7. E Beckham ne diventa il padrone. I suoi cross e le sue punizioni, parallelamente al look, diventano un marchio mondiale. Fino al 2002/03, quando dopo tanti successi, trofei, soddisfazioni e qualche incomprensione (sul finire dell'avventura) con Sir Alex, si trasferirà al Real Madrid.
"Dobbiamo prenderlo, boss!”, queste le parole che, si narra, Gary Neville proferì a Sir Alex Ferguson. Un rapporto particolare quello tra il terzino destro e il tecnico scozzese, che amava alla morte i suoi fedelissimi, quelli che aveva preso agli albori della sua carriera allo United, quando le cose non andavano nemmeno troppo bene, e si era tenuti ben stretti nel corso degli anni, delle vittorie e del via-vai inevitabile degli altri calciatori. Ferguson accettò il consiglio e decise di prenderlo: quel ragazzino portoghese, di ruolo ala, lo aveva impressionato nel corso di pochi minuti di un’amichevole contro lo Sporting Lisbona, e il parere di un terzino arcigno e dai pochi fronzoli come Neville valeva in questo caso doppio. Quel ragazzino portoghese si chiamava Cristiano Ronaldo. Il giovane arriva in punta di piedi a Manchester, magari pensando di dover fare inizialmente "gavetta", vedendosi invece assegnata, con grande sorpresa, proprio lei, la leggendaria maglia numero 7: un’investitura in piena regola. Col passare delle settimane il giovane cresce, inizia ad incantare. Ha il gusto per il gioco da solista, ma col tempo inizia anche a macinare gol e vittorie, diventando sempre più decisivo e sempre meno narcisistico nelle giocate. Con la maglia prestigiosa dello United stravince tutto, è ormai un fenomeno riconosciuto a livello mondiale. Si fa sotto il Real, che nel 2009 lo acquista per la faraonica cifra di 94 milioni di euro, all’epoca la più alta mai versata per un calciatore.
Ora tocca a Sanchez. Il cileno proverà a rinnovare la magia. Ai posteri l'ardua sentenza.