Trentacinque anni e 53 giorni dopo l’ultima volta, l’Italia tornerà al Santiago Bernabeu per disputare la partita di qualificazione ai Mondiali contro la Spagna. Era l’11 luglio del 1982, quando l’Italia si impose per 3-1 contro la Germania grazie ai gol di Rossi, Tardelli e Altobelli. L’autore del momentaneo 2-0, Marco Tardelli, in un’intervista a La Stampa, ricorda le emozioni di quella notte che consegnò all’Italia il terzo Mondiale della sua storia. Sul luogo del trionfo ci è tornato due volte Tardelli: la prima fu una sconfitta da allenatore dell’Inter, l’altra su un invito di una tv spagnola: “Una passeggiata sul prato della cattedrale, ancora più gigantesca, più incombente senza la folla. In un silenzio così solenne da togliere il respiro, tanto che faticai a riempirlo di ricordi e di emozioni. Per fortuna non mi chiesero di rievocare quell’urlo. Ma gli avrei detto di no, era ancora l' epoca in cui mi ero stufato di vederlo e faticavo ad accettare di essermi lasciato andare a quel modo. Oggi, quando accade, lo rivedo in serenità, senza più stare a domandarmi se non sarebbe stato il caso di farne a meno”.
Esultanza frutto dell’adrenalina del momento: “Fu un gesto liberatorio, irrefrenabile, un' apnea. Rivissi in quel lungo istante tutta la mia vita calcistica, da quando i miei genitori si erano messi di traverso perché non volevano mi dedicassi al calcio, fino alle tensioni della sera prima, anzi della notte prima, passata come sempre nella vana ricerca del sonno in compagnia di Bearzot, che era il vecchio coyote così come Bruno Conti ed io eravamo i giovani. Passando attraverso altri momenti che avevo sempre un po' faticato a digerire. Tipo? La rivincita, la più grande possibile, contro chi non aveva creduto in me, nelle mie possibilità. Tutti i provini in cui ero stato respinto, dalla Fiorentina, dal Torino, e poi Bologna, Milan, Varese. Ero troppo magro per tutti, per uno a Varese addirittura ero fisicamente zero e mentre correvo urlando con le braccia al cielo il fumetto dentro di me era "guardate un po', stronzi, che cosa ha combinato il magrolino".
Torniamo indietro di qualche secondo, dove stava Tardelli un istante prima di diventare Munch? “Bella domanda, perché Bergomi e Scirea andavano avanti da un po' e nelle immagini mi si vede sbucare all' improvviso. Ero rimasto più indietro, a coprire, perché con il gioco di inserimenti che voleva Bearzot chiunque poteva infilarsi, a patto che qualcuno si fermasse a garantire gli equilibri. In quell' Italia anche lo stopper doveva saper giocare a calcio, come faceva Collovati e prima di lui, in Argentina, Bellugi che coi piedi ci sapeva fare. Mentre il vero regista era il libero, che era un campione come Scirea capace di garantire gli equilibri e dettare i tempi. E trasmettere calma anche a chi, come me, calmo non era. Come tanti anni più tardi Pirlo, sia pur con caratteristiche diverse e altri compiti da assolvere”. Poi nello spogliatoio partì la festa: “Poca roba, proprio poca. La festa c' era già stata sul prato, prima e dopo la consegna della Coppa. Tutti insieme, chi aveva giocato e chi no, chi era stato protagonista sul campo e chi altrettanto prezioso in quel mese e passa di convivenza e di bufera, prima che scattasse la fase del cammino trionfale. Quel Mondiale lo vincemmo davvero tutti insieme, guidati da quell' uomo straordinario che era Enzo Bearzot. Lui era trasfigurato. Perché aveva assorbito su di sé tutte le tensioni, cercando di scaricarle da noi. E quando tutto finì era davvero esausto”.
Dopo la vittoria il ritorno in albergo: “Avevamo cenato tutti insieme, poi scattò il rompete le righe. Ma nessuno andò in cerca di discoteche o chissà che, ci spargemmo per l' albergo a goderci tutti insieme la bellezza di un momento che, già ce ne rendevamo conto vivendolo, non sarebbe più tornato. Nessuno aveva sonno, nemmeno Scirea che pure sembrava reduce da una passeggiata di salute o da una partita qualunque, di routine. Ricordo che dopo un po' salii in camera con Rossi e Cabrini e andammo avanti a sparare, come dire, sciocchezze, per tutta la notte”. Tardelli infine racconta un ultimo aneddoto: “Ad un certo punto cominciammo a giocare col telefono. Fu Paolo a cominciare, svegliammo un bel po' di gente, lui era bravo a parlare in un finto giapponese che faceva molto ridere noi e imbestialire quelli che stavano dall' altro capo del filo. Io avevo 28 anni, Rossi 26, Cabrini 25, eravamo ragazzi che si difendevano dalla clausura con carte, ping-pong e qualche scherzo imbecille ogni tanto”.