Kobe Bryant e il calcio: il linguaggio comune della vittoria
Close menu
Chiudi
Logo gdm
Logo gdm
logo
Ciao! Disabilita l'adblock per poter navigare correttamente e seguire tutte le novità di Gianluca Di Marzio
logo
Chiudi

Data: 13/04/2017 -

Kobe Bryant e il calcio: il linguaggio comune della vittoria

profile picture
profile picture

C’è un filo rosso, sottile, quasi invisibile, che accomuna le eccellenze. Qualcosa di impercettibile, per le menti comuni. E’ un agonismo compulsivo, morboso, perché in fondo si rasenta la malattia. E’ una fame insaziabile di vittorie, una sensazione che nasce dall’interno e prende vita, comanda il corpo a vincere. Sempre, senza margine d’errore. Ecco, a voler trovare cosa rappresenta Kobe Bryant per il calcio e lo sport in generale, la definizione è senz’altro questa.

Nei suoi anni italiani, un giovane Kobe giocava, ovviamente, a basket. Al primo intervallo delle partite degli adulti scattava subito in campo a tirare con papà Joe, e non ne voleva sapere di uscire dal campo. Fin da quando aveva 11 anni, sapeva che il suo futuro sarebbe stato in NBA, come ripeteva più volte ai suoi compagni, che finivano per deriderlo. Ma stando nel nostro paese, era inevitabile venire a contatto con il calcio, molto più che uno sport nazionale. Seppur bambino, Bryant lo aveva già percepito. “Somiglia più a una religione, l’ho capito subito”, diceva quattro anni fa. D’altronde, sarebbe un errore sorprendersi, quando a parlare è il più mistico degli interpreti della palla a spicchi di questa generazione, che si ritirava proprio un anno fa. Ma non è soltanto una questione di culto.

C’è un periodo in cui porta e canestro non sono affatto diversi. Kobe li sente entrambi, e vive i due sport con un’intensità talmente forte da trovarne i punti di contatto. Come più volte ha ricordato, gli insegnamenti ricevuti sul calcio lo hanno aiutato a leggere con più efficacia situazioni di gioco nel basket, in particolar modo a proposito del coinvolgimento dei compagni negli schemi. Un bambino più che prodigio. O forse, a dispetto dell’età, nemmeno un bambino.

Grazie al genio di Quentin Tarantino, applicato a Kill Bill, Bryant scelse tredici anni fa di darsi come soprannome Black Mamba, “un serpente famoso per agilità e aggressività. Quando l’ho visto ho pensato ‘cavolo, è la perfetta descrizione di come vorrei essere in tutte le partite che gioco’” ha spiegato. Anche quando gli è stato chiesto in chi vedesse lo stesso istinto predatore nel mondo del calcio, Kobe ha fuso i due più grandi talenti di questa generazione: “Messi per il modo di decidere le partite e il controllo del pallone, Cristiano Ronaldo per l’etica del lavoro. Loro vedono lo sport allo stesso modo di come lo vedo anch’io”.

Nel cuore di Bryant, due squadre: il Milan e il Barcellona. Si innamora da bambino del Milan degli olandesi, con Van Basten e Maldini suoi grandi idoli. Per i blaugrana perde la testa, fatale l’amicizia di Pau Gasol: insieme al giocatore catalano, Kobe ha formato una delle coppie più belle di sempre nella storia del basket, nata nel 2008. La sintonia in campo si trasforma nella condivisione di una passione per il Barcellona, che in Spagna è ancora più forte, dal momento che le società polisportive sono la normalità. Quella è la prima stagione di Pep Guardiola alla guida del Barça, un altro che l’Italia calcistica non l’ha mai dimenticata, un’esperienza eccellente come uomo e come professionista. Il trasporto per il Barcellona coinvolge del tutto Bryant che festeggia, insieme a Gasol, la Champions League conquistata dai catalani, nella finale di Roma – per rimanere in tema – nel 2009, sei ore prima di gara-5 delle Western Conference Finals contro i Denver Nuggets di Carmelo Anthony: non il momento migliore per fare baldoria. Ma 22 punti e 8 assist avrebbero cancellato ogni dubbio su una mente sempre, costantemente fissa verso il parquet.

E’ facile immaginare lo smarrimento di allora, a ripensare un addio da 60 punti. Nel calcio, nel basket e in ogni sport di squadra c’è un linguaggio comune. La storia della palla a spicchi è piena di agonisti puri: Chamberlain, Havlicek, Bird, Jordan, Garnett. E quando l’epigono di questo codice, il giocatore più amato e al tempo stesso odiato della storia di questo gioco, è pronto ad uscire di scena, sono gli altri a non poterlo accettare. Perché privi del punto di riferimento, dell’obiettivo da raggiungere. Perché lo sport, così, aveva perso la più fulgida incarnazione della fame di vittoria. Che scorre dentro, sinuosa come un mamba. Che poi morde, avvelena e uccide. Proprio come un mamba.

“E’ divertente. Quando c’è più pressione, il gioco diventa più ‘fun’ per me. Amo questa situazione.”
-
Kobe Bryant



Newsletter

Collegati alla nostra newsletter per ricevere sempre tutte le ultime novità!