L’ultimo anno di apertura delle case chiuse. Domenico Modugno che canta "Nel blu dipinto di blu" dal palco dell’Ariston a Sanremo. La Democrazia Cristiana al governo. Un bergamasco diventa pontefice e tutti lo ricorderanno come il “Papa buono”. L’inizio della Dolce Vita, qualche strada più in là, dall’altra parte del Tevere. Fotogrammi sparsi del 1958 in Italia. Storie di un anno da ricordare. O da dimenticare, perché quel 1958 si giocava un mondiale in Svezia. L’unico al quale non ci siamo qualificati da quando rotola un pallone.
Colpa di una partita. Maledizione di una notte di mezzo inverno a Belfast. Irlanda del Nord-Italia, 15 gennaio, stadio Windsor Park, ultima giornata del gruppo 8. Agli azzurri basta un pareggio per qualificarsi. Dimenticate i gironi lunghi di oggi. Raggruppamento a tre: noi, gli irlandesi e il Portogallo. Passa solo la prima. I lusitani, con 3 punti in classifica, sono fuori dai giochi. Con loro abbiamo perso a Lisbona e vinto a San Siro. Un doppio 3-0, ma il secondo ci permette di giocarci con relativa serenità l’ultima sfida. Abbiamo 4 punti, frutto di una vittoria di misura all’andata sull’Irlanda del Nord. Il ritorno, contro di loro, in realtà, l’avremmo già giocato a inizio dicembre, prima della vittoria coi portoghesi a Milano.
Un onorevole 2-2 nel fango, ma senza l’arbitro ufficiale; l’ungherese Istvan Zsolt è rimasto bloccato dalla nebbia a Londra. Il signor Tommy Mitchell da Belfast, professione panettiere, non viene accettato come "official referee" dalla nostra federazione. E allora si gioca una semplice amichevole. Per modo di dire, perché mai definizione fu più sbagliata.
Quell’incontro sarà sempre ricordato come la “battaglia di Belfast”: provocazioni continue sul campo e dagli spalti, invasione non pacifica del pubblico, giocatori malmenati. Un pandemonio originato da una dichiarazione estiva di Eddie Firmani, attaccante sudafricano della Sampdoria. Il giocatore avrebbe parlato alla stampa inglese, paragonando la Serie A a una sorta di laboratorio del doping. I britannici sono lettori attenti e spettatori irascibili. La notizia gira in fretta, i mezzi dell’epoca sono troppo scarsi per verificarla. Migliaia di irlandesi vogliono ripristinare a modo loro la lealtà sportiva. In quel marasma finiamo noi in 10. Mitchell “il panettiere” espelle Chiappella, nostro centromediano metodista (ruolo di cerniera fra difesa e metà campo) per un fallo di reazione su Danny Branchflower, idolo locale e stella del Tottenham.
Manca più di un mese alla partita vera, ma il mondiale iniziamo a perderlo quella sera. A Belfast ci guardiamo allo specchio e scopriamo di essere talentuosi ma leggeri. La squadra è allenata da Alfredo Foni. Ha vinto due scudetti con l’Inter puntando più a non prenderne. Si chiama catenaccio, pensiamo di averlo inventato noi, ma prima di tutti ce lo hanno insegnato gli svizzeri. Che nel mondiale a casa loro, 4 anni prima, ci hanno eliminato così. Loro lo chiamano verrou, ma è la stessa cosa.
Il nostro gruppo del ‘58 ha più pittori che muratori. Alcuni non sono fiori dei nostri vivai. È l’epoca degli oriundi, giocatori naturalizzati grazie a qualche parentela lontana o ai buoni uffici della dirigenza. Tutti giocatori offensivi: l’argentino Montuori, il brasiliano Da Costa e i due assi di Montevideo, Ghiggia e Schiaffino, che nel ’50 fecero piangere il Brasile con l’Uruguay. Dal Maracanazo a Windsor Park, otto anni dopo.
Foni decide di schierarli tutti nella notte che ci deve portare al mondiale. E a loro aggiunge anche Pivatelli, centravanti del Bologna. Lo schema in campo è il celebre “sistema”, o WM: 3-2-2-3. Giocava così il Grande Torino sparito tragicamente a Superga. Ci vogliono personalità spiccate e qualità tecniche eccezionali per giocare così. E magari, un campo da gioco in buone condizioni. Desiderio incompatibile con l’inverno di Belfast. Si gioca in una palude di fango. In cui affoghiamo, inconsistenti a centrocampo, assediati dietro. I primi 45 minuti smascherano i nostri difetti. Prima McIllroy con un tiro da fuori, poi Cush alla fine di un’azione corale trafiggono il nostro Bugatti. Andiamo al riposo sotto di due reti, Ci serve un miracolo per andare al mondiale. Un errore del portiere nordirlandese a inizio ripresa consente a Da Costa di riaprire i giochi. Ci proviamo, anche perché in porta c’è Uprichard, sostituto dell’ultim’ora di Gregg, bloccato a Londra dalla nebbia. Come successe al signor Zsolt un mese prima. Questa volta invece, l’ungherese è al suo posto in campo e a venti minuti dalla fine spegne le nostre ultime speranze. Cartellino rosso per Ghiggia che perde la testa contro il terzino McMichael. È l’emblema della frustrazione di una squadra che sprofonda e non reagisce più.
Fino al fischio finale. Siamo fuori dal mondiale di Svezia. Quello in cui Pelé si rivela al mondo, l’ultimo a cui non partecipiamo.
Questa volta dobbiamo passare dalla Svezia per giocare la Coppa del Mondo. Abbiamo due oriundi brasiliani in rosa: uno in attacco e uno chiamato a rinforzare il centrocampo. Perché forse la nostra qualificazione passerà da lì. A Stoccolma, a Milano, come a Belfast sessant’anni fa. Scelte decisive per volare in Russia. Come avrebbe detto Modugno ieri. O come dice Rovazzi oggi. Perché la nazionale è di tutti.
Claudio Giambene