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Data: 12/05/2016 -

Inter, Icardi: "Andare via dal Barcellona non è stata la fine del mondo. Idolo? Batistuta"

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A 23 anni ha messo a segno quasi 60 gol in serie A. Eppure per Mauro Icardi non sono mancate le critiche. A spiegare i momenti di difficoltà e a dare una motivazione ci ha pensato lo stesso numero nove interista nel corso di una lunga intervista concessa a La Gazzetta dello Sport.

"Molti non hanno idea di cosa significa per un calciatore avere un pallone fra i piedi e non riuscire a calciarlo ad un metro, per il dolore" - dichiara Icardi - "La pubalgia è così: sai come viene, non sai quando se ne andrà. A me venne per colpa di una serie di tiri a fine allenamento, mi scivolò il piede e mi stirai un muscolo intercostale: iniziai a dormire male, a camminare male, si infiammò il pube e come se non bastasse mi toccava anche sentire cazzate tipo che tutto dipendeva dal troppo sesso con Wanda. Mi sarei dovuto fermare subito ma a me non piace star fermo, e figuriamoci arrivare alla Pinetina presto solo per fare massaggi, punture, risonanze: non sono tipo da depressione, ma accorgermi di non riuscire a dare nulla a tifosi che quell’estate mi avevano accolto come un re non era un bel pensiero. Molto peggio che decidere di lasciare il Barcellona: anche oggi, anche pensando a che squadra è, non lo vedo come chissà quale buco nero nella mia carriera. Non sono l’unico che se n’è andato da lì, non è mica la fine del mondo: o perlomeno, io me ne sono andato con un sorriso. Come sempre, quando sono io che scelgo di fare una cosa".

Icardi apre l'album dei ricordi: "Il viaggio della vita, nel senso che me l’ha cambiata, l’ho fatto a 9 anni: da Rosario a Gran Canaria, troppo grave la crisi in Argentina per vivere lì. Era giugno, ma papà era là da marzo a preparare il trasloco e avevamo già lasciato la nostra casa, che era separata solo da un muro dal campo del Sarratea, il mio club: per tre mesi abbiamo vissuto lì, in una stanza accanto agli spogliatoi, che mamma chiudeva a chiave quando c’erano gli allenamenti.  In realtà era il primo viaggio fuori dal mio quartiere e a mamma chiedevo: 'Che lingua si parla là? Cosa mangeremo? Avrò degli amici?'. Ma appena arrivato ho conosciuto Sebastian: lui mi avrebbe fatto giocare nel Vecindario e sarebbe diventato il mio fratello delle Canarie". Rapporto con i social network: "Oggi quasi tutti hanno almeno un profilo, ma io uso i social network da molto prima di quasi tutti e non come tanti, che nascondendosi dietro l’anonimato si divertono a giudicare. Sapessero quanto ci divertiamo io e Wanda, a leggere quello che scrivono... Chi mi guarda e mi conosce per quello che faccio in campo, con i social può vedere anche chi sono e come vivo fuori da lì, perché io mica vivo dentro il campo. Molti  mi chiedono: 'ma non diventa una schiavitù essere così social?'. Ma perché? Se sei un personaggio pubblico, in un certo senso “sei di tutti”. E poi a volte, è inutile fare i finti puristi, è anche una questione di lavoro: quando devi firmare un contratto pubblicitario ormai la prima domanda che ti fanno è sempre quella, 'Hai un profilo?' ".

Il calcio lo ha salvato da cattive strade? "Quante volte l’ho sentito dire: 'Se non fosse stato per il calcio, sarei diventato un delinquente'. Io non lo sono diventato perché ci sono stati i miei genitori, Juanchi che è il mio migliore amico e José Alberto Cordoba, il mio primo allenatore: un uomo umile e dal cuore enorme che però in campo mi chiedeva sempre un po’ di più, e se mi avesse trattato come tutti gli altri bambini chissà se sarei stato quello che sono. Certo, il calcio mi riempiva giornate che vuote non erano mai visto il mio iperattivismo, come da soprannome: cañito, più o meno razzo, o fuoco artificiale. Non avevamo molto altro, mica come i ragazzini di oggi che vivono con l’iphone e l’ipad. Ma non sarebbe stato il calcio a salvarmi se non avessi voluto vedere in faccia la possibile cattiva strada e non avessi capito da solo che non mi interessava prenderla. A 7 anni conoscevo tutti, anche quelli che vendevano droga e per la droga ammazzavano, e tutti conoscevano me. Quando andavamo a scuola in bici la mamma preferiva fare il giro largo, e io 'No dai, passiamo dentro la villa' e mi salutavano tutti, 'Ehi Mauro', anche i peggiori. Juanchi li vede, e vede pistole e droga, da trent’anni, ma continua ad alzarsi ogni mattina alle sei per andare a lavorare: alla fine i delinquenti quasi sempre sono quelli che vogliono esserlo, o quelli che non hanno voglia di lavorare".

Idolo? Una vecchia conoscenza del calcio italiano: "Quello che da bambino vedi come idolo, se non è un’infatuazione e basta poi diventa modello: per me, si sa, Gabriel Batistuta. La prima 'visione' fu davanti alla tv, una sua partita con la Seleccion. La prima mania, i pupetti che regalavano se compravi la Coca Cola: avevo la collezione completa ma lui rispetto agli altri stava da un’altra parte, al sicuro, intoccabile. La prima emozione grazie alla rivista 'El Grafico', a quei tempi andavano in giro per i club e regalavano ai giovani calciatori una copertina finta con un fotomontaggio, e ovviamente avevo scelto di avere Bati vicino. E pensare che poi non c’è stata occasione di avvicinarlo davvero: mai riuscito a conoscerlo di persona, magari un giorno. In compenso ho sempre sperato di riuscire a rubargli il segreto di quella forza che metteva quando giocava, ti sembrava che mangiasse il campo. Io lo so che adesso sto dall’altra parte, perché ci sono bambini o ragazzini che vorrebbero essere Icardi, ma non è che ogni volta sto lì a pensare: 'Mauro, occhio che ti guardano'. Anche perché credo di essere abbastanza intelligente da sapere cosa di me 'si vede bene' e cosa invece 'si vede male' ".

 

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