Cosa rimane? Niente. Paura, disperazione e basta. Rimangono i calcinacci, la distruzione. Rimangono gli affetti della vita quotidiana spiattellati qua e là per la strada spaccata. Un orsetto di peluche, ingrigito dal peso delle macerie, una bici, col manubrio rotto a metri distanza. Non c’è altro. Men che meno le parole. La voglia di aggrapparsi a un qualcosa, a un qualcuno (Dio, per chi crede) per ricominciare a vivere. La preghiera, il pianto. I bambini che chiedono, domandano incupiti e straniati. Rimane il non sapergli dare una risposta. Perché una risposta a tutto questo non c'è. Solo fatalità? Destino? Resta la forza distruttrice della natura, la consapevolezza che per quanto uno possa illudersi, il domani non sarà più come il presente.
Sono ore, giorni tristi in Umbria, nelle Marche, a Norcia, Visso, Ussita e tutti gli altri paesi colpiti. Di quella tristezza che ti ammazza, ti distrugge, perché ti corrode dentro: sgretola ogni piccola certezza, logora. Sono le ore della perdizione totale. Solo pensare a ripartire, è difficile. Perché è dura viverlo il terremoto. Che arriva e spazza via, non guarda in faccia a nessuno, non si ferma. Ti fa sentire piccolo e basta, letteralmente insignificante: totalmente assorto nel più infimo e crudele processo naturale. Piange il cuore, tremano le gambe; a Norcia solo il silenzio e la paura.
Apprezzi la quotidianità, quella cosa lì che magari ieri ti sembrava stupida e banale. Adesso la rivorresti dannatamente. Non c'è più. Cerchi un appiglio, un qualcosa che per un attimo ti possa far pensare ad altro, possa seppur per poco cancellare l’incancellabile.
C’è il calcio, forse. Una piccolissima – quasi insignificante – soddisfazione che non serve a nulla: non ti fa ricostruire la casa, non consola il tuo dolore. Ma per un attimo ti dà quello di cui hai bisogno: il non pensare, o il pensare ad altro. Staccare un attimo la spina dai pensieri infiniti, dal timore che ti fracassa in continuazione.
Le testimonianze toccanti di Aglietti e Santopadre, il timido sorriso sul volto dei tifosi di Perugia, Ternana e Ascoli. Rimane questo, a prescindere dal risultato. Perché spesso è proprio il calcio ad unire, a dare un senso al tepore stagnante delle nostre giornate. E’ il calcio a prenderti per mano e a consolarti: per poco, chiaramente. Con il fare di una madre premurosa ti prende sottobraccio e ti proietta da un’altra parte: al Cabassi dove Orsolini trascina l’Ascoli alla vittoria contro il Carpi, a Vicenza dove il Perugia vince quattro a uno o al Liberati con la Ternana che torna a sorridere (si fa per dire) e batte quattro a tre il Novara.
Ci sono i giocatori che dormono in macchina, che hanno paura: come tutti, d’altronde. C’è la passione, il colore biancorosso, bianconero o rossoverde che illumina – giusto novanta minuti – il sentiero perché nella brutta e nella cattiva sorte, la tua squadra non la lasci mai. Il calcio non è e non può essere l’antibiotico, ma se non altro è un’accettabile tachipirina.
Dura poco, poi tutto torna come prima. Tornano le macerie, il dover passare la notte non si sa dove, la paura del domani. Il cuore dell’Italia è spezzato come non lo è mai stato. E’ logoro, ma non vuole cedere. E’ abituato a lottare, dal ’95 ad oggi, anche se ora è gravemente ferito. Per qualche minuto quei colori lì lo hanno un attimo consolato, gli hanno urlato a modo loro di non mollare.
Quando accade una disgrazia di questo tipo nella nostra testa più che le parole restano le immagini, quelle più forti. Una chiesa crollata, una casa distrutta. Ripartiamo da un’immagine, allora. Da un bambino che questa mattina ha perso tutto: l’orsetto di peluche, la bici, tutto. E alle 17.30 si è messo con la sua sciarpetta davanti alla prima tv che ha trovato a vedere la partita. Situazione banale, insignificante (di significante ora c’è poco) ma che – a modo suo – parla, urla. Urla voglia di ricominciare subito, di vivere e di crescere nella propria terra. Di cancellare questa maledettissima domenica 30 ottobre 2016 il più in fretta possibile.