Sono passati dodici anni dal Superclásico più emozionante e forse importante della storia. La semifinale di Libertadores del 2004. Era stata la notte di due giocatori: Carlitos Tévez e Guillermo Barros Schelotto. Uno protagonista in positivo con un super gol e in negativo con l'esultanza della gallina e la conseguente espulsione per provocazione al pubblico. L'altro in grado di rimettere in sesto una partita compromessa non con il talento, ma con l'astuzia. Il Mellizo, quella sera, fece credere a Sambueza che l'arbitro lo avesse espulso. Quello si fidò e incominciò a insultare il guardalinee, accecato dalla rabbia. L'arbitro non ebbe alternative e lo cacciò veramente ristabilendo la parità numerica.
Era la prima volta che Tévez e Barros Schelotto si ritrovavano insieme a difendere la maglia del Boca al Monumental dopo quella partita finita ai rigori con il trionfo Xeneize. Uno da attaccante, come dodici anni fa. L'altro da allenatore. Avranno sentito il brivido dell'emozione, il fremito di un ricordo. Ma il campo li ha condannati a una partita diversa, con altrettanta sofferenza e un pareggio strappato quasi eroicamente viste le occasioni incredibili fallite dal River con Mercado, Mora e Alonso.
Oggi il Boca, nonostante sia pieno di ex stelle del calcio europeo e tanti giovani di talento, non è in grado di sognare una notte da ricordare contro i Campioni del Sud America in carica. Gago e Tévez sembrano da qualche partita ombre spente di un passato di gloria perduta. E anche la mano di Barros Schelotto non ha ancora la magia del furbo calciatore che regalava momenti magici ai tifosi azul y oro. Anche il miglior prodotto delle giovanili, Bentancur, cercato a gennaio anche dal Real Madrid, è offuscato da una confusione diffusa. Osvaldo passeggia in dolce compagnia durante la convalescenza da una frattura a un dito di un piede poco prima della partita più sentita dell'anno invece di avviarsi verso lo stadio, ed è forse il simbolo del momento di smarrimento di una squadra lontana anche da quello che aveva fatto nella scorsa stagione quando aveva vinto campionato e coppa nazionale.
Il River sprecone, ma parzialmente giustificato dalle assenze di due calciatori chiave nel sistema tattico del suo allenatore Gallardo come D'Alessandro e Pisculichi, infortunati, si gode comunque la dolcezza di un dominio territoriale che dà soddisfazione, e il potenziale dei suoi migliori giovani, destinati a emigrare presto (magari verso l'Italia) e a lasciare una grande ricchezza nelle casse della società per costruire un nuovo ciclo vincente dopo quello che lo ha portato a vincere tutti i titoli in ambito continentale, tutti i tornei organizzati dalla Conmebol.
Il Mammana del Superclásico non è valutabile, perché mai attaccato dai rivali, Tévez in testa. Ma Vangioni spinge sempre con qualità e sembra aver placato la sua eccessiva aggressività (è stato ammonito ancora una volta contro il Boca, ma non è stato protagonista di interventi durissimi come quelli con cui in passato aveva azzoppato Pavón e il Burrito Martínez). Driussi, quando non è vittima di infortuni, può fare la differenza su entrambe le fasce e anche da falso nueve. Alario quando non segna dà sempre fastidio ai difensori avversari con il suo gioco alla Toni, e il Pity Martínez sboccia un po' di più a ogni partita, trasformandosi da giocatore estroso ma fumoso in pericolo concreto per le difese: Gallardo lo sta rendendo un calciatore che pensa prima alla squadra che al dribbling fine a se stesso.
È finita 0-0, e serve poco a tutti. Ma le prospettive del River e del Boca, dopo questo Superclásico, sono rovesciate rispetto a dodici anni fa...