E' sempre stato così. Il rapporto di comunicazione tra Vecchio e Nuovo Mondo non è mai stato neanche vagamente paritario: l’Europa ha rappresentato sempre il punto d’arrivo, e quasi mai quello di partenza di chi aveva tutta l’intenzione di farsi un nome nel fútbol. C’è una bella espressione, usata in America Latina per riferirsi a questa irrefrenabile emorragia di talento, in cui emerge tutta l’essenza di questa sorta di vassallaggio futbolero: “Cruzar el charco“, letteralmente attraversare lo stagno, che figurativamente sarebbe l’Oceano Atlantico, fare il salto di qualità, affermandosi in un contesto più competitivo e appagante dal punto di vista economico, anche se non per forza più emozionante.
Come tutte le cose rare, la presenza di un europeo, un africano, o anche un asiatico nel calcio sudamericano suscita sempre una certa dose di stupore. Eppure c’è stato chi, per avventura o soldi, questa rotta ha deciso di percorrerla nel senso inverso con l’ambizione di fare come Garibaldi, lasciando il segno in entrambi i Mondi. Sono stati trasferimenti pittoreschi e bizzarri. Alcuni anche del tutto casuali. In una parola: inaspettati.
Eusébio al Monterrey
Nel 1975 il fútbol messicano accolse il suo primo vero grande divo: Eusébio. Dopo una breve parentesi negli States tra le fila dei Boston Minutemen, la Pantera Negra firmò un biennale col Monterrey.
Nella Sultana del Norte il portoghese di origini mozambicane godette di quel tipo marcato di stima che sconfinava nella venerazione. Guadagnava bene, andava in giro a bordo di una fiammante Chevrolet Camaro Sport 1975 comprata in Texas, poi rivenduta allo stesso presidente regiomontanoche se ne era follemente innamorato, e in poco tempo la calorosa hinchada rayada lo elesse a proprio idolo incontrastato.
Venne coccolato, assecondato, e persino consultato dalla dirigenza per questioni di mercato. Gli diedero la fascia di capitano e, quando Ignacio Jáuregui lasciò l’incarico di allenatore, gli chiesero un parere tecnico sull’eventuale sostituto. Lui fece il nome di Fernando Riera, suo allenatore ai tempi del Benfica. Il cileno accettò la proposta e diventò uno dei condottieri più iconici della Pandilla.
In campo le cose non andarono altrettanto bene. Perseguitato dai malanni alle ginocchia, giocò solamente dieci partite. Ma fece comunque in tempo ad assaporare la magia di un Clásico Regiomontano coi Tigres, prima di segnare la sua unica rete in terra messicana. Il 20 dicembre 1975 all’Universitario il Monterrey ospitava il Jalisco. Lui subentrò a José Luis Saldívar, raccolse una sponda area di Milton Carlos e girò in rete di testa, realizzando un gol che nessuno in Messico potrà mai dimenticare.
John Yawson al Peñarol
Washington Cataldi è stato qualcosa di più di un presidente per il Peñarol. Militante della prima ora del Partido Colorado, diventato sottosegretario all’Industria durante il ministero del futuro presidente Julio María Sanguinetti, entrò nel mondo del calcio nel 1973, raccogliendo il testimone dalle mani di Gastón Güelfi. Sette anni più tardi si mosse in prima persona per ingaggiare un calciatore ghanese, tale John Yawson. Non si trattò di un capriccio, né un qualcosa dettato dell’urgenza di seguire a tutti i costi una moda del momento, visto che Yawson fu il primo africano a giocare in Copa Libertadores, ma di un acquisto basato su una ferrea convinzione: “El futuro del fútbol está en África”, ripeteva come un mantra Cataldi, molto tempo prima che questo refrainvenisse mandato a memoria da molto allenatori europei, compreso Arrigo sacchi. L’anno dopo a Montevideo arrivarono pure i sudafricani Abednigo Ngcobo e Ace Knomo, ma i tempi non erano ancora del tutto maturi per certe cose, sebbene il Peñarol vinse la quarta Libertadores della sua storia: gli africani, incapaci di ambientarsi e penalizzati da un fisico eccessivamente gracile, giocarono poco o nulla, ritrovandosi immediatamente ai margini della squadra.
N’Kono al Bolivar
Nel 1995 Thomas N’Kono, leggendario portiere del Camerun, nonché idolo d’infanzia di Gianluigi Buffon, era in missione a La Paz: doveva accompagnare l’attaccante nigeriano Festus Agu, suo amico che non conosceva la lingua, a firmare un contratto con il Bolívar. Vedendolo girare per il centro d’allenamento dell’Academia, l’allenatore Antonio López Habas lo invitò ad unirsi alla seduta di allenamento in corso. Il caso volle che Mario Mercado, il compianto ex presidente del Bolívar, si ritrovasse a passare di lì e rimanesse folgorato dall’abilità del portiere camerunese, tanto da offrirgli la possibilità di chiudere la carriera in Bolivia. N’Kono veniva da un’esperienza all’Hospitalet, nelle serie inferiori spagnole, e aveva più di 40 anni, ma Mercado non volle sentire storie: per lui era ancora in forze. E aveva ragione: adattatosi non senza fatica alla vita in altura e al cibo boliviano, N’Kono impiegò poco tempo per diventare il portiere titolare, rubando il posto a Mauricio Soria e vincendo due titoli boliviani con l’Academia.
La Quinta Balcanica del Puebla
Per varie ragioni, non ultima quella economica, il Messico è stata una delle mete predilette per molti campioni del calcio europeo, ancor prima dell’epopea Gignac: lì hanno vissuto il finale della loro carriera icone e personaggi come Pep Guardiola, Emil Kostadinov, Uve Wolf, Bernd Schuster, Emilio Butragueño e molti altri. Ma un capitolo a parte merita quello che successe al Puebla nel 1998. Il presidente Abed stava vendendo la franchigia a una cordata di imprenditori, ma si era tenuto per sé il cartellino dei tre giocatori stranieri, tra cui l’eccentrico portiere uruguaiano Gerardo Rabajda, impedendogli di potersi accasare da qualche altra parte per il torneo successivo. Allora, per riempire al più presto gli slot vacanti, l’allenatore Raúl Cárdenas volò nell’Europa dell’Est, dove giocavano alcuni talenti che aveva visionato precedentemente su vecchi VHS. Dal viaggio nei Balcani non tornò a mani vuote: con lui c’erano cinque giocatori balcanici (Kzezevc, Peković, Trenevski, Janjić e Sindić), ribattezzata dalla stampa “La Quinta Balcanica“. Anche se il calcio di quelle zone aveva raggiunto eccellenti risultati, come il terzo posto della Croazia al Mondiale francese, l’esperimento di Cárdenas si risolse in un tonfo di portata epica: los Camoteros persero la bellezza di dodici partite e retrocessero nel semestre successivo.
di Vincenzo Lacerenza - Tre3Uno3