Il primo messaggio sarà stato sicuramente di suo padre, il Gianca. O magari di "Mone". Di mamma Marina. Tutti gli altri in fila. Magari avrà risposto freddamente, ancora "incazzato" per la sconfitta in Tim Cup col Pordenone. Perché Pippo è così, maniacale: "Quando perdo non dormo la notte". (Super) preparato già da ragazzino, quando sul pullman - durante le trasferte - stupiva i suoi compagni recitando a memoria le formazioni avversarie. Con pregi e difetti: "Questo lo marchiamo così, quest'altro così...". Tuttologo. Lo era prima, da ragazzino, ciuffo moro e sguardo vispo, quando a 15 anni già attaccava il primo palo giocando coi più grandi: "Il primo gol lo segnai così, una girata di testa". Tutto merito di papà e di un cartellino falso da cui è iniziato tutto. Perfezionista di natura. Ieri, oggi. Ora. Perché Inzaghi lo è anche da uomo, allenatore di un Venezia formato "Super". Come lui del resto. Che si è rimesso in gioco e ha vinto pure, vele spiegate verso la B. Bresaola, plasmon e gol. Riti e tradizioni. Era un must a 15 anni, continua oggi a 44 appena compiuti (ps: auguri!). Certe cose non cambiano mai.
IL SOLITO INZAGHI
Inzaghi ha incarnato il fine ultimo del calcio: segnare. Semplice, chiaro e diretto. Non importa come, quando, dove e perché. Importa esserci, buttarla dentro. E Inzaghi c'era sempre. Dribblando la logica e lo spettacolo, scartando i "tocchettini" e i giudizi di carriera. Quelli del "poco tecnico, gracile, scordinato". Lui ha risposto coi fatti: sempre decisivo in tutti gli Scudetti (3), in Champions (Atene docet) e in Europa, pure in Nazionale (25 reti). Sacrificando la pura tecnica su un altare di efficacia e precisione, al netto di sacrifici e cura dei dettagli, riducendo il tutto a una sola formula: "Gli altri costruiscono e danno spettacolo, poi arriva Pippo Inzaghi". Che alla fine fa quello che serve: fare gol. Stop. Uno che a detta di Valdano "non avrebbe dribblato neanche una sedia". Ma che Berlusconi definì "Babbo Natale" dopo la doppietta al Liverpool, nella notte di Atene. Quella del "non mi sento bene" ad Ancelotti e del gelato post-partita. Da solo, alle 3 di notte, in albergo, con la targa di "man of the match" accanto al comodino e "Certe Notti" a tutto volume nelle orecchie. Alta tensione. Quasi come le scaramanzie e i riti di una vita. Su tutti: il sorso alla bottiglietta d'acqua prima di entrare in campo o il polsino bianco al braccio destro, con la medaglietta del nipote nascosta sotto il nastro. Legatissimi, come col fratello. Brotherhood: "Gioco solo se viene anche Simone". Parlava così da ragazzino. "Ha fatto una grande stagione con la Lazio, è uno dei migliori allenatori d'Italia". Ribadisce ora, da uomo: "Da lui ho tanto da imparare". Entrambi cresciuti e pieni di ricordi, dalla Nazionale insieme alla stanza condivisa a Bergamo nel '97, quando Pippo diventava capocannoniere con l'Atalanta e Simone si metteva in mostra al Lumezzane. Ora hanno un sogno, un Lazio-Venezia da brividi... col filo del dubbio: "Per chi tiferanno mamma e papà?". Scelta risolta col banale: "Che vinca il migliore". Mai uno contro l'altro. Oggi, a 44 anni, Pippo Inzaghi ha iniziato una nuova vita accantonando per sempre gli scarpini. Giacca, cravatta e direttive. Col Novara, nel 2012, il 316esimo squillo di una carriera di successi, in un pomeriggio in cui forse non avrebbe neanche smesso. Ma alla fine ha vinto il tempo: "Caro Milan, ti lascio solo perché è la vita. Perché è il momento. E lo sai anche tu". Allievi, Primavera, prima squadra. Fallimento e niente Europa, la fiducia viene meno e Inzaghi resta un po' deluso. Un anno fermo a caccia di idee: "Mi sono perfezionato". Fino al successo col Venezia che ha fatto ricredere un po' tutti. Squadrone e promozione, Serie B e Coppa Italia Lega Pro col "triplete" sfiorato. Soliti riti, solite scaramanzie. Il solito sorso d'acqua prima di ogni gara. Il solito Inzaghi. Perché certe cose non cambiano mai. Neanche in panca.