“Tutti i bambini sono nati artisti. Il difficile è restarlo da grandi”, diceva Pablo Picasso. A Firenze c’era un ragazzino di grande talento. Veniva da Carrara, si chiamava Federico e storpiavano volontariamente il suo cognome in Brunelleschi. Un’artista. Ogni volta, che toccava palla. Però, come tanti artisti, quei colpi di genio erano seguiti da lunghe pause. “Discontinuo”, dicevano spesso di Federico Bernardeschi, l’artista bambino chiamato a confermarsi tale da grande.
Ci è riuscito e oggi è l’architetto principale del primato juventino. Con “ritmata chiarezza”, come faceva Brunelleschi nelle sue opere. Vincendo le perplessità dei 40 milioni spesi per lui la scorsa estate. Come il suo quasi omonimo nella Firenze del ‘400 con una cupola da costruire.
Frosinone-Juventus l’ha decisa lui. È vero che la partita l’ha sbloccata Cristiano ed è chiaro che dopo 30 tiri a 3, era inevitabile che Davide fosse sul punto di essere trafitto da Golia. Ma il cambio di passo l’ha dato lui. Facendo cose semplici. Saltando uomini con i passaggi e non con bizantinismi. Duro come il marmo della sua terra, geometrico come un architetto. Un leader naturale, anche in una squadra che ha una quantità di talento pantagruelico. A Valencia, ha consolato Ronaldo e preso per mano il gruppo. Erano in 10 ma con lui sembravano in 12. Gamba, qualità, grinta.
Stile operaio, come le sue origini familiari. Occhi da uomo del destino. Ha 24 anni e ha già superato infortuni e delusioni cocenti. Ha capito che quel “fino alla fine” va messo in ogni allenamento. In ogni ripetuta a Vinovo. In ogni minuto concesso.
In passato cercava l’accentramento per colpire. Orizzontale, in cerca di se stesso e del colpo magico. Oggi è la definizione plastica di hombre vertical. Nello spirito e nel modo di stare in campo. Ricerca ostinata della semplicità, come piace al suo allenatore, che lo considera ormai indispensabile. Come piace tanto al suo compagno più illustre, che lo ha abbracciato forte dopo la rete del 2-0. Un rapporto speciale, forse l’inizio di un binomio imprevedibile. “Ronelleschi”, chi l’avrebbe detto.
Eppure Berna e Cristiano parlano la stessa lingua. Quella del lavoro che si abbina al talento. Già il talento. Picasso, sempre lui, lo definiva semplicemente “otto ore di lavoro al giorno”. Stessa visione del mondo dei due protagonisti dello Stirpe. “Sei il numero 1”, diceva Federico a Cristiano al Mestalla, mentre il 7 usciva in lacrime dal campo. È il suo modello quotidiano, quello che gli sta dando la spinta per diventare l’uomo del Rinascimento italiano. Come Brunelleschi.
Il 7, un esempio da seguire. Come da bambino, quando segnava nell’Atletico Carrara e urlava il nome di Sheva. 7 come Seven, il suo film preferito da sempre. 7 più 33, il numero che ha scelto perché Gesù è sul costato, sul braccio destro e nella mente. 7 più 33 fa 40. I milioni spesi per lui. Ok, il prezzo è giusto. Tutto torna.
Massimiliano Allegri si gode la sua crescita, giorno dopo giorno. Ne ha elogiato la maturità e lo sprona a spingere ancora.
Sempre più in alto, senza vertigini. Senza più arabeschi. Dritto al cuore. Delle difese avversarie e di una tifoseria pazza di lui.
Se c’è oggi uno stile Juve, ha la faccia, le gambe e i piedi di Federico Bernardeschi.
Un ragazzo del ’94 che piangeva in culla quando Baggio tirò il rigore in cielo a Pasadena. Uno che non ha tremato al primo ritorno a Firenze. Uno che si è rialzato dall’infortunio dell’anno scorso e ora guarda solo avanti. Un uomo in fuga. Come la Juve.