Le lacrime dopo la vittoria degli US Open del 2009 avevano non solo fatto il giro del mondo, ma consegnato al tennis un campione umano. Perché Juan Martin del Potro è da sempre il “gigante buono”, con quel fisico statuario (198 cm) e un dritto devastante, ma con il viso da bambino e un cuore grande come le pampas della sua terra. Amato da tutti, anche perché campione sfortunato. Tre operazioni al polso stavano per mettere la parola fine alla sua carriera, due anni fa lo shock: “Forse smetto”. Poi il ripensamento, spinto dalla voglia di tornare e non darla vinta agli infortuni. Fatica, sudore e tanto lavoro, premiati da un 2016 da incorniciare. Perché culminato con due trionfi: non personali, ma con il Sol de Mayo sul petto. Questa estate l’argento olimpico a Rio, ieri la prima storica Coppa Davis dell’Argentina. Davanti agli occhi di Diego Armando Maradona, in tribuna nel palazzetto di Zagabria e cuore Xeneize come lui. Il mito di sempre, che guarda e tifa l’icona sportiva di una nazione intera. “Ha avuto due ‘huevos’ grandissimi, come nessuno. Oggi è entrato nel cuore di tutti gli argentini. Grazie Delpo e grazie per avermi reso tanto felice”, il messaggio del Pibe de Oro su Facebook. Perchè questo è Delpo: l’esempio sportivo di un intero popolo, forte nel rialzarsi dopo la sfortuna e capace di tornare a vincere. Ieri ha trascinato l’Argentina alla vittoria finale, un trionfo festeggiato anche nel mondo del calcio: da Dybala a Banega, passando per il Boca Juniors, moltissimi argentini hanno utilizzato i proprio profili social per complimentarsi dell’impresa. E anche tutto il "Monumental", in occasione del match tra River Plate ed Huracan, ha festeggiato la vittoria di Del Potro e compagni esultando: celebrando una rinascita e una rivincita capace di abbattere anche le barriere del tifo.
Una rinascita sportiva, quella di del Potro, paragonabile a ciò che hanno vissuto tanti calciatori nel corso della storia. Su tutti quella di Ronaldo, stroncato dalla sfortuna e dalle ginocchia di cristallo. Una l’immagine indelebile nella sua carriera: giugno 2000, finale di Coppa Italia, Ronaldo fa il suo rientro in campo dopo 6 mesi di stop e tutto lo stadio Olimpico si alza in piedi, per tributargli una standing ovation commovente. Gioia che dura solo qualche minuto: tempo di un doppio passo e di nuovo il ginocchio che fa crack, per ciò che sembrava l’inizio del declino. Mesi di riabilitazione e ricadute, con la delusione del 5 maggio a fare da cornice ad un addio ormai prossimo. Invece, pochi mesi dopo, ecco la rivincita: Mondiale con il Brasile e Pallone d'Oro, che riportano il Fenomeno sul tetto del Mondo.
Quattro anni dopo tocca a Francesco
Totti. È il 2006 e, a pochi mesi dall'avventura in Germania, il capitano della
Roma si frattura il perone: il primo, vero infortunio della carriera. La paura
di non tornare quello di prima è tanta. Ma anche per lui, la tenacia è più forte di un'intervento chirurgico e c'è una promessa a fare da sprone: “Se torni presto ti porto in Germania”, parola di Lippi. E 67 giorni dopo, rieccolo di nuovo in campo, a tempo di record: prima con la Roma, poi con l’Italia.
Il resto, è storia. La stessa che fece il
Barcellona a Wembley nel 2011: non tanto per la vittoria della Champions League, quanto per ciò che accadde nel corso la finale. Nella partita più importante
della stagione, Guardiola decide di schierare titolare Eric
Abidal, dando fiducia ad un giocatore operato solo due mesi prima per un
tumore al fegato: il gesto più bello, però, arriva dal capitano. A due minuti
dalla fine, Carles Puyol entra in campo senza indossare la fascia, cedendola al francese. Immagine che fa il giro del mondo e dimostra come davvero Eric sia tornato, rialzandosi dopo la malattia ed alzando al cielo la Coppa. Infine, Cristian Chivu: protagonista del
triplete nerazzurro, dopo il grave infortunio al cranio. Dal tennis al calcio, con un minimo comun denominatore: la
voglia di rivalsa che hanno solo i grandi campioni. Che sia tennis o calcio, poco importa: cuore e huevos, sempre. Un po' come Juan Martin del Potro.