"L'ho avuto a Venezia, era un giocatore dotato di mezzi incredibili. Di scuola Inter, veniva da una stagione 'devastante' nel Pavia. Poteva diventare un giocatore assoluto..." firmato Alberto Zaccheroni. La lista degli estimatori di Stefano Civeriati è lunghissima e tutti dicono la stessa cosa di lui: "aveva una classe e un talento immensi, ma quanta sfortuna...". Non solo un problema di infortuni però, qualcuno lo "accusava" di essere poco cattivo: "Posso essere d'accordo – dichiara Civeriati ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com - alla soglia dei 50 anni penso di essere abbastanza maturo per fare un po' di autocritica. Però ci sono tante componenti che vanno analizzate nelle singole carriere. Dico sempre anche ai miei ragazzi che il calcio è fatto di sfumature che poi determinano gli eventi e contraddistinguono le annate e le carriere. Non basta avere le qualità, perché tutto va adattato ai tempi e questo è valso anche per me. Però non rimpiango nulla, perché ho avuto modo di vivere tutta la mia vita nel mondo dello sport e lo faccio tuttora con grande passione ed era quello che desideravo fin da bambino. Molti, come Zaccheroni, quando mi incrociano mi dicono 'Madonna quanto eri forte, potevi fare molto di più in carriera...' e io rispondo sempre che comunque qualcosa l'ho fatta. Alla fine va bene anche essere ricordato come quello che 'poteva fare qualcosa di più': lo accetto".
Gli inizi nell'Inter, ancora adolescente: come si fa a conciliare i sogni e le ambizioni con la realtà? "E' stata la grande difficoltà della mia vita. Io sono entrato a far parte della prima squadra dell'Inter intorno ai diciassette anni. Vivere con questi grandi campioni ti può, tante volte, portare a pensare in grande, ma in realtà sei ancora un bimbo: è un po' quello che dico ai miei ragazzi. Sui miei errori cerco di costruire i loro successi". Il cuore, inizialmente bianconero, è così diventato interista: "Da ragazzino ero tifoso della Juventus, poi è chiaro che la mia vita è passata attraverso la maglia nerazzurra. Sono arrivato a Milano che avevo 13 anni e ho avuto la fortuna di fare tutta la trafila, dai Giovanissimi alla Primavera e di fare due anni di serie A con l'Inter, in un torneo allora composto da grandissimi campioni. A Milano ho costruito legami forti e l'Inter è diventata la mia 'mamma calcistica' , il suo è il risultato che chiedo la domenica: ho vissuto quindici anni tinto di nerazzurro. Ma io in generale sono tifoso del calcio e molto spesso per vederlo giocare in un certo modo vado fuori dall'Italia. Real, Barcellona e Bayern...mi piacciono molto le squadre di Guardiola".
Tuttavia a Milano lo spazio era poco e da qui una delle scelte più difficili da prendere per un giovane: restare o andare a farsi le ossa? "Io scelsi di giocare. Debuttai in serie A nel 1987 in un Roma-Inter, l'anno prima dello scudetto dei record. Era un calcio un po' diverso da questo, dove venivano utilizzati quasi sempre gli stessi giocatori, anche perché c'erano meno partite e quindi per un giovane c'erano poche possibilità di giocare. Andai dunque a Catanzaro, in serie B, dove c'era Gianni Di Marzio". E in Calabria la sfortuna fa visita a Civeriati per la prima volta: "Un infortunio sembrava aver posto fine alla mia carriera con largo anticipo. Poi arrivò il Pavia, che mi dava anzitutto la grande opportunità di giocare e di mettermi in mostra. Mi tolsi delle grandi soddisfazioni: a fine torneo arrivai a quota 20 gol. Quel campionato lì mi ridiede la possibilità di ripropormi in piazze più importanti, che mi restituirono ciò che l'infortunio mi aveva tolto. Sia a Venezia che a Vicenza ho vinto dei campionati, per cui non posso che ricordarle come stagioni bellissime. Dopo il Vicenza andai al Livorno perché ero molto legato al presidente Achilli, che mi volle portare con sè dopo i tempi di Pavia. Sarei dovuto andare a Bologna quell'anno, con Zaccheroni, però mi ruppi il ginocchio, crociato anteriore e posteriore. Non mi sentivo di affrontare una stagione in una piazza così importante dopo un incidente tanto grave".
L'ultima visita, la sfortuna gliela fa proprio in Toscana: "Devo dire che neanche a Livorno fui fortunato, perché la seconda stagione stavo andando molto bene ma mi infortunai gravemente anche l'altro ginocchio e da lì decisi di smettere. Giocai nel Derthona e nel Pavia, in D, ma ormai diciamo che la mia carriera era finita". Chiusa l'attività da calciatore è iniziata quella da allenatore, soprattutto nei settori giovanili: "La cosa più difficile ma allo stesso tempo più stimolante è la capacità dei ragazzi di saper acquisire quello che gli comunichi. I giovani sono come delle "spugne" che assimilano tutto, il bello e il brutto di quello che gli spieghi e cerchi di fargli capire e per tutti quelli che insegnano nel settore giovanile è una responsabilità enorme. Io porto spesso il mio esempio, gli errori che ho commesso, perché adesso che ho i capelli bianchi sono in grado di capire e riconoscere dove ho sbagliato. E' fondamentale far capire quotidianamente ai ragazzi che stanno praticando lo sport più bello del mondo e hanno la fortuna di poter provare a farlo diventare il loro lavoro: per me, al di là del discorso economico, la vita dello sportivo è in assoluto la più bella. Su questo concetto cerco di battere, in modo da rafforzare gli stimoli, la voglia e la passione per il lavoro quotidiano, che in fin dei conti è dare un calcio al pallone in un rettangolo verde".
Insegnante o educatore? "Dipende dalle categorie con cui ti confronti. Ad esempio l'anno scorso ho lavorato con i Giovanissimi Nazionali, età media di 14 anni, poco più che bimbi, mentre quest'anno ho gli Allievi Nazionali, età media 16 anni, ragazzi già quasi pronti al grande calcio. E' chiaro che nel primo caso ho dovuto svolgere anche un ruolo da educatore, però mi reputo più insegnante. Quest'anno siamo primi in classifica e non era mai successo nella storia dell'Alessandria calcio. Poi l'altra bella soddisfazione è che due dei miei ragazzi sono quasi sempre aggregati in prima squadra e hanno gli occhi della società addosso. Tutto ciò è motivo d'orgoglio per me, per il gruppo e per tutto il club, che grazie al grande lavoro che stiamo facendo negli ultimi due anni è cresciuta tantissimo. Merito del presidente Di Masi che ha strutturato la società in maniera perfetta. Qui c'è tutta la tranquillità per lavorare bene nella formazione dei ragazzi". Magari è anche giunto il momento per Civeriati di tornare ad allenare una prima squadra: "Domanda che mi hanno fatto in tanti. La mia dimensione ormai è questa, sto bene con i giovani, mi diverto e sono molto stimolato. Il mio scudetto è vedere qualche mio ragazzo che un domani possa andare a giocare tra i professionisti".
A proposito di prima squadra, l'Alessandria sta vivendo una bellissima stagione: "E' quello che tutti ci auguravamo, perché abbiamo una società molto ben organizzata e pronta al grande salto. La piazza, poi, ha risposto in maniera importante, perché a Genova c'erano quasi tremila persone al seguito e in città c'è grande entusiasmo, si respira aria di promozione. Mi auguro che sia l'anno giusto, anche se io dico sempre che è meglio arrivarci una stagione dopo, ma pronti per poterci rimanere e credo che questo sia l'obiettivo che la società si è preposta. Se sarà quest'anno ben venga, se invece sarà l'anno prossimo va bene lo stesso. L'Importante è che il club cresca giorno dopo giorno, per farsi trovare pronto, quello che sta accadendo". Anche l'Inter, nonostante le ultime due sconfitte in casa, sta facendo un grande campionato: "Anzitutto l'Inter ha un allenatore di grandissimo livello. Conosco benissimo Roberto Mancini, so come lavora e che persona è. All'Inter ha già vinto e so che la società ha molta fiducia in lui. Credo che sia la persona giusta al posto giusto. Mi auguro che l'Inter torni a vincere, sono stato lì quindici anni e quindi mi farebbe molto piacere, sono convinto che siamo in buone mani. Io dico che la forza di un giocatore è nella testa e indubbiamente i risultati che stanno raggiungendo i nerazzurri danno certezze e fanno vivere bene la settimana a tutti, gruppo, tifosi, società. Rinforzi? L'abitudine a vincere è la cosa più importante. Solo un giocatore, a livello di singoli, poteva veramente cambiare la partita e giocava ai miei tempi: si chiamava Maradona. Oggi credo più nel gruppo e a quello che riesce a creare l'allenatore e Mancini ha già tutti i mezzi giusti".