Nadia Nadim è nata nel gennaio 1988 a Kabul, in Afghanistan. E’ bella, ha un viso pulito e sorridente; sembra la tipica ragazza della porta accanto, un po’ acqua e sapone, che potrebbe ambire al titolo di regina in qualsiasi concorso di bellezza. Regina in effetti lo è diventata, ma le qualità estetiche non c’entrano. C’entrano invece quelle fisiche, che in campo la rendono “unstoppable” come si legge sul sito FIFA.com che la racconta attraverso un’intervista intitolata “A football refugee”. Nadia è una centrocampista (anche se indossa la numero 9) che a inizio carriera ha giocato nel Fortuna Hjørring, squadra danese che milita in Elitedivisionen, poi allo Sky Blue Fc (club americano che partecipa alla National Women’s Soccer League e nel quale Nadia ha esordito con 7 gol e 3 assist in 6 partite). Infine il trasferimento nella sua attuale squadra, il Portland Thorns FC, club dell’Oregon che nel 2016 la NWSL l’ha vinta. La centrocampista di Kabul ha talento e carisma e non è certo un caso se da pochi giorni è stata votata come miglior calciatrice danese del 2017. Un riconoscimento che per lei non sa solo di vittoria, ma anche di libertà. Perché quello che dovrebbe essere un valore universale, per lei è stato un cammino lungo e faticoso, una conquista con un alto prezzo da pagare, violenta e crudele. Quando era ancora bambina, il padre, generale dell’esercito afgano, fu rapito e ucciso dai talebani; la madre Hamida, consapevole dei rischi che avrebbero corso lei e i suoi figli rimanendo a Kabul, decise di fuggire. E così, tra qualche difficoltà e tantissime speranze, la famiglia Nadim, intraprese un viaggio dall’Afghanistan al Pakistan, per arrivare prima in Italia e poi in Danimarca, dove si sono stabilite in modo definitivo e dove hanno (ri)costruito la loro vita. Nadia oggi è cittadina danese, veste con orgoglio la maglia della nazionale e si è detta onorata e felice dell’importante riconoscimento di qualche giorno fa.
La sua è una storia difficile, ma che oggi ci insegna quanti e quali traguardi si possano raggiungere credendo nei propri sogni, anche se iniziano per caso, su un campo da calcio lontano da Kabul.