“Non puoi mettere un limite ad ogni cosa. Più sogni, più arriverai lontano” parola di Michael Phelps, metafora della vita di Dario Bova. Ex difensore con una carriera “normale” – come ripete spesso lui – ma con tanta voglia di non fermarsi mai e ambire al massimo per se stesso. Tre anni fa lo avevamo intervistato quando ancora faceva il calciatore ed era riuscito a ritagliarsi il tempo per studiare e laurearsi. Tanti sacrifici e nessun limite, quelli esistono solo nella testa di chi crede che conciliare calcio e studio sia un’impresa impossibile. Una laurea in giurisprudenza, il sogno di diventare ds – magari del Napoli - per imparare dalla sua fonte d’ispirazione, Giuntoli, e qualche consigli, raccontato in esclusiva ai microfoni di gianlucadimarzio.com, per quei calciatore che si affacciano al mondo del calcio:
“Io consiglio a tutti i giovani ragazzi che si affacciano alla vita di calciatore di non lasciare lo studio per inseguire il sogno di arrivare in Serie A. Il calcio ti dà tanto, ma ti toglie anche tanto. Succede che a volte un giocatore a 35/36 anni smette e non sa cosa fare. Si trovano in un limbo, parecchi sono caduti in depressione. Obiettivamente non è facile passare dall’essere impegnato 365 giorni all’anno al ritrovarsi da un giorno all’altro senza fare nulla. Bisogna studiare per trovarsi una strada aperta una volta finita la carriera da calciatore. Anche perché a volte il calcio è crudele: subisci un infortunio a 25/26 anni e sei costretto a mollare. E se non hai un piano B, cosa fai?” Altre strade, altri obiettivi per non vivere di solo calcio. Lui ha studiato da avvocato e ora studia a Coverciano per diventare direttore sportivo. L’ambizione c’è, la consapevolezza che il ruolo di ds non sia una passeggiata anche, ma d’altronde Dario i suoi sogni li rincorre. Nessuna risentimento per chi magari, dopo una gloriosa carriera da calciatore si ritrova dietro una scrivania. È una specie di medaglia al merito e va rispettato anche perché chiunque prima di passare dal campo ad un ruolo dirigenziale deve studiare e prepararsi alla sua nuova vita da dirigente.
“Non mi dà fastidio che alcuni giocatori importanti, terminata la carriera da calciatore, inizino subito quella dirigenziale. Se uno è stato un simbolo in campo è giusto che venga omaggiato e premiato dalla società per la quale ha dato tutto. È una riconoscenza che magari non sempre nel calcio c’è. E poi non è vero che arrivano, da un giorno all’altro e senza preparazione, dietro ad una scrivania senza sapere cosa fare. Anche loro vengono affiancati e aiutati in questo nuovo percorso. Faccio un esempio? Se un Totti decide di fare il direttore sportivo non è che sceglie i giocatori che ritiene funzionali alla squadra, li compra e finisce lì. No, dietro c’è un mondo che un direttore sportivo deve conoscere e sul quale deve essere preparato. Ce lo hanno detto anche al corso: quello del ds è un lavoro a 360°, bisogna occuparsi di tantissimi aspetti. Bisogna mantenere il rapporto con il presidente, la società, l’allenatore, i giocatori, occuparsi dei contratti dell’area sportiva in generale. C’è tanto lavoro su cui devi essere formato”.
Il corso da Direttore Sportivo a Coverciano con Cassano, il sogno Napoli con Giuntoli
Un corso impegnativo, quello di Coverciano per diventare direttore sportivo, ma che Dario Bova sta vivendo con l’entusiasmo di un ragazzino a cui è stato regalato il suo primo pallone. C’è da studiare, superare gli esami scritti, gli orali e poi preparare una tesi, ma in queste prime settimane le ansie da “primo giorno di scuola” hanno fatto spazio alla voglia di imparare e all’entusiasmo.
“L’esperienza a Coverciano? Ero un po’ in ansia perché non sapevo cosa mi sarei trovato davanti. Avevo visto i nomi di chi vi avrebbe preso parte e insomma… tanta gente che ha fatto la Serie A. Ti senti un po’ piccolo in mezzo a questi giganti. Tante persone fantastiche e super disponibili. È stato bello e poi mi sono ritrovato anche con vecchi amici con cui ho condiviso il campo. Mi è piaciuta molto la lezione sul match analysis lo studio dei numeri apportati al calcio. È stata una lezione molto interessante perché non tutti credono che i dati possano rivelare tanto della prestazione della squadra e individuale. Ci è stato dimostrato che lo studio dei numeri non è quasi una scienza esatta, nella praticità, ma quasi ci si avvicina. La Lezione sulla Giustizia Sportiva, con l’avv. D’Onofri, e anche quella sui Settori Giovanili sono state molto interessanti”. Tanti nomi importanti assieme a lui: da Pellissier a Lucarelli passando per Antonio Cassano, un alunno modello, a differenza di quello che molti potrebbero aspettarsi, ma con la battuta sempre pronta.
“A differenza di quello che si aspettano tutti è stato uno dei più attenti. Faceva domande e chiedeva spiegazioni… certo la battuta è nella sua indole e non poteva mancare, ma è stato veramente una sorpresa. Un alunno diligente. L’episodio più bello con lui? Si parlava di merchandising, dell’importanza degli sponsor nel mondo del calcio e si parlava della presentazione di Gotze al Bayern Monaco in maglia Nike nonostante lo sponsor del club fosse Adidas. Lucarelli è intervenuto dicendo che Cassano quando fu presentato al Real Madrid fece peggio. Siamo scoppiati tutti a ridere perché abbiamo pensato tutti la stessa cosa, ma nessuno ha avuto il coraggio di dirlo”. Un corso lungo, ancora nel vivo, e che vedrà passare in aula tanti personaggi illustri del mondo del calcio. Tra questi Giuntoli, ds del Napoli, la sua fonte d’espirazione, l’uomo che gli ha indicato (forse senza saperlo) la strada da seguire una volta chiusa la carriera da calciatore.
“Per me è stato la fonte di ispirazione, se ho deciso di diventare direttore sportivo è anche grazie a lui. Sono passato da Carpi nella mia carriera, non la mia esperienza più fortunata, ma ho conosciuto lui e ne sono rimasto folgorato per il metodo di lavoro che addotta. Poi ovviamente il vedere una persona come lui partito dalla Serie D e arrivare in A, nel Napoli, dopo aver fatto la gavetta, lavorare 24 ore su 24 con l’obiettivo di vincere e raggiungere i suoi obiettivi mi ha impressionato e ispirato.
Cosa gli dirò quando lo vedrò? (ride ndr) devo dire la verità? Io sono tifoso del Napoli e ammiro anche da tifoso il suo lavoro, ma oltre a questo penso che gli chiederò se c’è la possibilità di entrare a lavorare nel suo team di collaboratori del Napoli, lavorare vicino a lui e apprendere i segreti del mestiere. Un sogno, se dovesse realizzarsi”.
Il calcio e la scuola
“Non mi sono laureato in 5 anni, ma in 8. Me la sono presa con calma. Credo che il segreto per conciliare la vita da calciatore e quella di studente sia l’organizzazione. Io ci riuscivo. Puntavo la sveglia e mi svegliavo per studiare, poi allenamenti. A volte uscivo la sera altre evitavo. I primi anni mi gestivo così, poi quando ho visto che alla laurea mancava poco ho accelerato cambiando un po’ abitudini. Mi sono chiuso in casa, uscivo solo per allenarmi. Per un anno non sono uscito. Giocavo ad Aversa e i miei compagni di spogliatoio mi prendevano in giro. Finito l’allenamento ero il primo a farmi la doccia, mentre gli altri tornavano dal campo io avevo già il borsone in spalla pronto a tornare a casa. Io spiegavo loro che lo facevo perché dovevo studiare, ma per loro era una cosa talmente strana. Alla fine si erano convinti che andassi dalla ragazza, non ci credevano che avessi tutta questa fretta di tornare a casa a studiare”. Pane, calcio e scuola è venuto su così Dario che se fuori dal campo era tutto libri e studio, sul terreno di gioco… bè lì ci mandava il gemello cattivo...
“Mi odiavano tutti. Quando giocavo ero falloso, aggressivo ma senza cattiveria. Lo facevo per sfruttare le mie doti. Tecnicamente non ero molto dotato e sopperivo a questa mancanza con l’intensità e tanto agonismo. Fuori invece ero e sono totalmente diverso. Sono un gioioso, mi diverto, amo gli animali, sono un ragazzo tranquillo. Ma sono sicuro che qualche mio avversario abbia pensato che fuori dal campo facessi l’assassino (ride ndr.). Che tipo di giocatore ero? Un po’ un Paolo Montero. Però ero bravo anche di testa, qualche gol l’ho fatto”. Eh sì perché la sua carriera non sarà di certo stata quella di Montero, ma qualche soddisfazione – oltre che nello studio – se l’è tolta anche sul campo dove ha collezionato ben 5 promozioni in 17 anni di carriera. E se gli si chiede se sia più difficile superare un esame o ottenere una promozione con il proprio club, non ha dubbi: “Sono due cose diverse: una dipende non solo da te, ma da altre persone e tanti fattori, l’altra sei solo tu e i tuoi libri, dipende tutto da te. Vincere un campionato è come se dovessi far superare un esame ad una classe dove tutti sono diversi, hanno preparazioni e capacità differenti; per portarli a raggiungere un comune obiettivo devi far sì che tutti siano allo stesso livello e che le capacità di ognuno siano al servizio del collettivo. Quando prepari un esame invece non serve tenere conto di altri fattori: ci sei solo tu, solo tu puoi decidere come andrà in base all’impegno che ci metti”.
Ricordi e (tanta) scaramanzia
A maggio, dopo l’ultima esperienza con il Taranto, ha detto basta con il calcio. A 35 anni era giunto il momento dopo tanta Serie D di inseguire il sogno di diventare direttore sportivo. Continuare a studiare ma restare nel mondo del calcio, due strade a volta tanto diverse ma che per chi ci crede possono coesistere e non mettere limite l’una all’altra. Un po’ di nostalgia del campo c’è, se ci pensa, e inevitabilmente riaffiorano ricordi: nitidi come album fotografici. Torna indietro ai tempi da calciatore Dario e pensa che la sua carriera sia stata bella, normale forse, ma bella. E se il ricordo più bello sono le promozioni, quello indimenticabile è legato ai suoi primi passi nel mondo del calcio: “La prima convocazione in prima squadra con il Napoli. Nel tragitto dal centro sportivo allo stadio San Paolo sul pullman ero emozionatissimo. Arrivato allo stadio, mentre il pullman stava scendendo nel parcheggio, tra la marea di gente che si è avvicinata a noi per salutarci e incitarci ho visto i miei genitori. Erano lì per me, emozionati e orgogliosi. Ho capito di avergli dato una grande soddisfazione. È l’immagine più bella della mia carriera”.
Semplice, mai banale come la scelta scaramantica del numero di maglia e quella maglietta indossata a tuti gli esami: “Ero e sono molto scaramantico. Dal primo anno di università, dal primo all’ultimo esame ho indossato sempre la solita maglietta. Estate o inverno, non c’era differenza. Poi anche col numero di maglia ero abbastanza particolare. Agli inizi a Cesena avevo il 13: un po’ per scaramanzia e un po’ perché era quello del mio idolo Nesta. Gli ultimi anni poi ho vestito sempre la maglia numero 31: sia perché era la mia data di nascita sia perché mio papà e i miei nipoti sono nati il 3 gennaio e poi è un 13 al contrario…”.
Come lui, la sua carriera e la sua storia. Tutto al contrario rispetto al “normale” e sempre due strade da percorrere che sia il 13 o il 31 poco cambia, quando non si può avere una cosa basta girarla in modo che si possa trarre anche da questa qualcosa di positivo. D’altronde Bova sogna e i sognatori non hanno limiti perché quelli spesso sono solamente delle illusioni.