Un nome ed un hashtag: #Godfred. C'è tutto nel titolo nel documentario di Donsah -centrocampista del Bologna - presentato nell'atipica cornice di un centro sociale appena al di fuori della cerchia delle mura della città. Un documentario che racconta le sue origini, la sua storia. Una storia che parte dal Ghana ed è fatta di polvere, di campi da calcio in terra, di piantagioni di cacao e di una famiglia legatissima che ha assecondato in tutto il sogno del giovane Godfred: “Devo tutto alla mia famiglia, a mio papà che quando ha capito che economicamente non ce l’avremmo fatta è partito per l’Italia con la speranza di trovare un lavoro. Ha viaggiato un mese attraversando il deserto, ha raggiunto la Libia, si è imbarcato per l’Italia ed è arrivato a Lampedusa”.
Da lì questa odissea lo ha portato in Campania, nei campi di pomodori del sud. “Io avevo 11 anni quando se n’è andato: stavo giocando a pallone, sono tornato a casa e mia madre mi ha detto che era andato in Italia. Per sette anni ci ha inviato i soldi a casa, ma non siamo mai riusciti a parlargli e questo non è stato facile. L’unica cosa che potevamo fare era pregare”. A casa restano la mamma, le tre sorelle e il ragazzo follemente innamorato del calcio. Per Godfred, infatti, la vita continua tra scuola, lavoro e soprattutto pallone: “Aveva una determinazione incredibile – racconta la mamma – i suoi amici lo chiamavano sempre a giocare e aveva sempre e soltanto il calcio in testa”. Perché il talento da solo non basta, soprattutto se vivi in una realtà in cui per giocare a pallone non ci sono nemmeno le scarpe. Godfred corre, dribbla, suda, scatta, segna. E non si ferma mai. Sempre alla caccia di quel sogno chiamato calcio. La svolta arriva quando Oliver Arthur, il suo futuro agente, lo vede giocare durante uno degli stage che periodicamente organizza in Ghana per individuare talenti da portare in Italia per alcuni provini: “Nel 2012 mi ha visto e mi ha portato a Palermo”. Lì conosce Sean Sogliano che l’anno successivo lascia la Sicilia per diventare direttore sportivo dell'Hellas Verona e lo porta con sé. Per poter giocare in gialloblù si pone il problema del permesso di soggiorno e a quel punto Godfred racconta la storia di suo padre che viene rintracciato: “Mio papà ha fatto quello che ogni padre dovrebbe fare per la sua famiglia e incontrarlo di nuovo dopo tanti anni è stato meraviglioso. Abbiamo riso e pianto, è stato bellissimo”.
A Verona conosce anche Luca Toni, che fino ad allora aveva visto giocare solo in tv: “E’ stato divertente quando ci siamo visti al campo di allenamento la prima volta. Lo fissavo dal basso in alto e quando lui se n’è accorto ha chiamato a sé Halfredsson, l’unico che parlava un po’ di inglese, chiedendogli di farmi dire il perché lo stessi guardando in quel modo. Gli ho detto che mi sentivo felice, che non potevo credere di avere fatto tanta strada e di essere lì a giocare con Luca Toni: era quello il motivo e ci mettemmo tutti a ridere”.
Poi l'esordio, il 19 aprile 2014 a Bergamo contro l’Atalanta: “Sono entrato a un quarto d’ora dalla fine. Avevo pregato ogni giorno per avere un’opportunità così e poi in quel momento mi prese una gran paura. Mandorlini mi disse di fare quello che sapevo e appena entrai in campo sbagliai il primo passaggio. Il mister mi fece coraggio e da quel momento non ci fu più problema”. Poi al Cagliari ed ora il Bologna. Ma Godfred non dimentica le sue origini, aiuta la sua famiglia e quando possibile torna in Ghana portando con sé palloni, magliette ed attrezzature per i ragazzi della sua terra: “Quello che manca in Ghana non è il talento, ma la possibilità e i mezzi per dimostrarlo”. Una semplice frase per spiegare a tutti la lezione di Godfred.
Marco Merlini