Awer Mabil guardava Ronaldo e sognava lo United: “In Kenya c’era soltanto una tv, camminavo per due ore a piedi pur di vedere i miei idoli”. Tante persone: “Io ero il più piccolo e restavo in piedi”. Pagando anche qualcosina. Mabil immaginava un futuro in Premier in un presente da rifugiato, giocava a calcio per "distrarsi e superare la giornata". Niente porte, niente campi, viva la fantasia: "Usavamo calzini arrotolati".
Nato nel campo profughi di Kakuma, nel Kenya occidentale (tutt'ora ci vivono più di 60mila persone), i suoi genitori scapparono dalla guerra civile in Sudan negli anni '90 “Ricevevamo del cibo dalle Nazioni Unite una volta al mese, non era facile”. Cresce in “una capanna di fango grande quanto una camera da letto”. Aveva un solo pasto al giorno: “Colazione o pranzo non esistevano”. Un chilo di riso a persona, loro erano in 4: “Dovevamo apprezzare quel poco che avevamo e goderci la cena”.
LA RIVINCITA DI MABIL
Oggi quel ragazzo ha segnato con l’Australia in Coppa d’Asia, nella vittoria per 3-0 contro la Palestina, il terzo squillo in Nazionale dopo appena 6 presenze. Niente di strano. Mabil si trasferì ad Adelaide quando aveva 7 anni insieme a suo madre, il tutto grazie a un programma umanitario concesso dall’UNHCR, l'Alto Commissariato dell'ONU per i rifugiati: “Ringrazio questo paese per avermi dato una possibilità, adesso riesco a sentirmi vivo”.
Ambientarsi non è stato semplice, quando aveva 16 anni è stato vittima di razzismo: “Ero con i miei fratelli, un vicino di casa mi attaccò dicendomi di tornare nel mio paese”. Un gesto mai compreso, anche perché col tempo ha imparato ad amare gli australiani, sentendosi uno di loro: “L'Australia è casa mia”. Tant’è che Graham Arnold se l’è portato in Coppa. Mabil non è male: classe '95, esterno d'attacco, un presente nel Midtjylland in Danimarca (5 gol quest'anno).
Oggi torna ancora a Kakuma, durante le ferie si prende sempre una settimana per stare con la sua gente: “Raccolgo scarpini, divise da gioco e medicine per regalarle ai rifugiati”. E magari anche piccole tv, evitando agli altri quei chilometri che faceva lui, mentre sognava di essere Ronaldo.