Sulle colonne del blog di Wyscout, Giampiero Gasperini ha rilasciato un’intervista in cui ha discusso a 360° del suo ruolo nel mondo calcistico, dagli esordi fino al meticoloso modo di preparare le partite. L’allenatore dell’Atalanta ha innanzitutto concesso un aneddoto sulla sua scelta dopo la conclusione della carriera da calciatore: “All’inizio non pensavo di fare l’allenatore. Volevo continuare a fare calcio ma ero felice di allenare le giovanili per trasmettere la mia esperienza. Non era mia intenzione però quello di aver a che fare i professionisti. È un qualcosa che è maturato con gli anni. La mia ambizione era educativa, legata alla mia passione per il calcio, ma era anche un modo per mettere alla prova me stesso. Era il piacere di stare con dei ragazzi, di stare in campo. Il primo problema che affronti è quello didattico: Cosa faccio? Che tipo di esercitazioni? Cosa voglio trasmettere? È una maturazione, uno studio su te stesso. Inizialmente devi crearti un metodo di lavoro in funzione delle capacità e possibilità dei ragazzi a disposizione, questo è già qualcosa che ti spinge a essere preparato. Non è istinto. Se hai ragazzi di una certa età, in base ai loro anni devi adeguarti al loro livello psicologico, fisico, atletico”.
Una chiave del suo successo da allenatore è sicuramente quella di valorizzare quanto più possibile il materiale che si è ritrovato a gestire: “Non penso che un allenatore possa dare di più a un giocatore, può però ottenere il meglio delle sue capacità. Noi non possiamo pensare che un allenatore possa trasformare un giocatore normale in un grande campione, ma il miglior successo è tirare fuori il meglio dalle sue caratteristiche. Per fare questo è importante agire sulla persona e ripetere questo processo per le 25 persone che compongono la rosa. Ci sono allenatori che hanno basato il loro successo sulla capacità tattica, altri sulla comunicazione”.
"L’allenatore è una persona che decide e, in quanto tale, è soggetto a critiche e insofferenze. - continua il Gasp - Lo è anche il genitore, l’insegnante. Se poi si va nel mondo professionistico, ci sono interessi economici dietro: c’è il rapporto con la dirigenza, il pubblico, i media. I risultati si ottengono attraverso strade diverse, sarebbe presuntuoso dire il contrario”.
Chiusura sulla cavalcata dello scorso anno, dove oltre all’aiuto di statistiche e video, bisogna ricercare qualcosa di più profondo per spiegare gli straordinari successi ottenuti: “Ci siamo trovati la passata stagione a compiere un finale di campionato che ci ha portato 37 punti e il quarto posto. Avevamo un’energia dentro che ci ha permesso di vincere delle partite che avremmo potuto anche perdere, perché anche gli altri avevano collezionato delle occasioni da gol, ma sentivi dentro un qualcosa che pesava, questo quindi come lo quantifico? In quel momento le partite le vincevi, perché questa era una sensazione davvero forte. Eppure se vado a rivedere le partite, ci sono stati dei momenti in cui si è rischiato. A volte la chiamano “fortuna” o “sfortuna”, ma come li pesi questi fattori? Quando le squadre hanno un obiettivo e poi si trovano un po’ staccate e di colpo perdono l’attimo: l’Inter e la Roma erano in cima fino a qualche settimana fa, poi perdono qualcosa e si fermano. Succede a tante squadre. E perdi 10 punti in un mese. Questo come si risolve, come lo gestisci? Sono altre componenti ancora, oltre statistiche e video”.
"Io mi sono tolto ogni tipo di scaramanzia per non diventare matto. Se chiedete a me, ecco, io credo nel campo. Nella comunicazione in una squadra non serve la parola, l’importante è l’occhio: la comunicazione visiva è fondamentale, noi possiamo intenderci con uno sguardo e io so come mi dai la palla. È una sintonia che si crea col tempo, non già al primo giorno. Giochiamo insieme e io so se preferisci la palla sul destro, sul sinistro, più in corsa. Queste sono quelle che giocate che magari determinano un gol, un risultato. Diventa quindi una cosa tecnica e questo mi piace molto".