In un universo parallelo Alexandre Pato ha vinto tutto. Senza se, senza ma. Tutto. Campione del Mondo col "suo" Brasile ai mondiali giocati in casa, capocannoniere di tutti i tempi con la Selecao, bandiera del Milan e punta di diamante dell'attacco rossonero. Pure Campione d'Europa. Con punture di spillo in ogni stadio che si rispetti. Immaginare è possibile, semplicemente lecito. Sognare anche di più. Perché alla fine, si sa, siamo ossessionati dal "ciò che sarebbe potuto accadere". Dal "possibile". Da un'idea di campione che non si è concretizzata. E forse mai lo farà. Come Pato. Perché il Brasile quei mondiali non li ha vinti, anzi. Lui neanche c'era. Perché non è diventato capocannoniere, né la punta di diamante del Milan. Perché quell'universo, purtroppo o per fortuna, mai esiste e mai esisterà. E Alexandre Pato, eterna promessa del calcio mondiale, lascia (nuovamente) l'Europa e se ne va in Cina per 6 milioni l'anno. Scelte.
Niente butterfly effect, soltanto una serie di rimpianti per un'illusione rimasta tale. Oggi il Tianjin di Fabio Cannavaro (e 18 milioni al Villarreal), ieri tante belle promesse mai mantenute fino in fondo. Internacional, Milan, quell'esordio a San Siro contro il Napoli che non tradì l'attesa (Pato fu acquistato ad agosto, ma i rossoneri dovettero aspettare gennaio per tesserarlo ufficialmente. Questione di regole legate ai minorenni). 9 gol il primo anno. Poi 18, 14, 16. Infine un lento declino che l'ha portato ai margini. Prima in Brasile, beccato al concerto di Beyoncé prima di una partita col Goias, poi al Chelsea, preso di mira a causa dei problemi fisici (esordì solo ad aprile, segnando l'unico gol in Premier League). Oppure al Corinthians, quando provò il cucchiaio a Dida. Sapete com'è andata, col povero Pato bersagliato da una serie di sfortunati eventi. "Perché?". Una domanda ricorrente: forse gli infortuni? Il carattere? La fiducia? La sfiga? Risposte semplicistiche, forse bisognerebbe scavare un po' più a fondo. Mentre altri, alla luce dei fatti, potrebbero rispondere che non è mai stato un fenomeno, e che attorno al suo nome si sono create troppe aspettative.
Meglio: illusioni. Non è così. A 16 anni, "Pato era già un potenziale campione". Era "diverso" disse Falcao. A 20, invece, era un top player, mentre a 22 diventava Campione d'Italia con il Milan. Benjamin Button del pallone cresciuto troppo in fretta. Forse l'unica risposta plausibile. Poi il declino. Litigi, incomprensioni e infortuni muscolari, il vero tallone d'Achille di una carriera che avrebbe dovuto dare tanto e che invece ha dato meno. Un peccato. Ma che ricordi al Milan, arrivato all'aeroporto come uno studentello del Liceo. Apparecchio ai denti, capelli ricci, la stima di Ancelotti fin da subito: "Se non fosse stato per lui non sarei mai andato al Milan. E' stato come un padre". Nonostante abbia soltanto 27 anni, Pato è già nostalgia. Ancora a caccia dell'onda giusta con cui ripartire. E adesso vola in Cina lontano dai riflettori. Un altro Alexandre Pato. Anche se, ogni tanto, viene voglia di riguardarsi quel suo gol contro il Barcellona, quando lasciò sul posto i due centrali con uno scatto da centometrista. Un frammento, un guizzo. L'esempio pratico di come quell'universo parallelo, oggi così lontano, sarebbe potuto diventare una bellissima realtà.