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Data: 02/09/2017 -

Albertini a 360 gradi: “Con la Spagna gara dura, il calcio è diventato business. E sulla corsa scudetto..."

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Dai primi calci al pallone tirati all’oratorio fino a Spagna-Italia di questa sera. E’ un’intervista lunghissima quella concessa al Corriere dello Sport da Demetrio Albertini. Che, in apertura, ha rivissuto gli inizi della propria carriera e l’approdo al Milan: “Io in oratorio ero uno dei più bravi: una volta non c’erano gli osservatori e i procuratori, c’erano gli amici degli amici degli amici dell’amico del massaggiatore del Como, del Monza o dell’Inter. “Vieni giù che sei bravo, ti porto a fare un provino”. Mio papà diceva sempre di no, ma in tutte le squadre della Brianza, dove nasco, c’era sempre qualcuno che voleva portarmi all’Inter, o al Milan. Invece mio papà diceva sempre no, diceva che dovevo studiare. Poi non poteva portarmi perché lavorava e lavorava tanto. Invece un giorno, quando avevo dieci anni, sono tornato da scuola e mi ha detto “Metti la tuta e andiamo a fare il provino al Seregno”. Il giorno dopo ho giocato con quelli più grandi. Poi mi vedono gli osservatori del Milan e io, a undici anni, sono rossonero”. Merito del talento, certo. Ma anche dell’educazione di mamma e papà: “Devo tutto ai miei genitori, a partire dall’educazione. Con grandi sacrifici mi hanno dato l’opportunità di seguire le mie passioni e realizzare i miei sogni. Per ben due volte hanno portato la borsa indietro al Milan, perché non studiavo. I miei dicevano “Vi restituiamo la borsa” e quelli della società allora si rivolgevano a me: “No, devi rimanere qui. Ma devi studiare, altrimenti i tuoi genitori non ti lasciano”. Grandi sacrifici, però il dovere era la scuola e il piacere era il calcio. Ma quando diventò un lavoro applicarono al mio mestiere il loro sistema di valori. Ricordo che la domenica sera, dopo le partite, magari uscivo a bere qualcosa con i miei amici, tornavo all’una di notte e mia mamma diceva “Adesso chiamo il Milan perché non si può fare il professionista come lo fai tu”. Io cercavo di rispondere “Mamma, ma il lunedì è il mio giorno libero”.

A Milan, la possibilità di giocare con grandi campioni. E con quel Van Basten che è storia: “Il più forte con cui ho giocato? Van Basten, il più forte in assoluto. Aveva, insieme, eleganza e forza. Poi lui ha smesso a ventotto anni, veramente giovane”. E l’allenatore più importante? “Lo sono stati tutti. Devo dire la verità. Sacchi mi ha fatto esordire e insegnato a fare il professionista, Capello mi ha dato l’opportunità di fare il titolare. Però ricordo mio papà, quando andavo all’oratorio si piazzava lì e calciavamo, gareggiavamo a chi la tirava più lontano. Il mio primo allenatore è stato mio padre, perché mi portava a giocare. Era così, una volta”, dichiara Albertini.

Dal passato al presente, con un commento sul calcio moderno: Il mondo è cambiato, il calcio è cambiato, è un business enorme. Se si valuta esclusivamente una persona, un giocatore e il suo valore, in questo caso Neymar, la quotazione è non tanto amorale, quanto ingiustificata. Questo è un mondo di business, ci sono dei fatturati astronomici ma il valore sono o dovrebbero essere, alla fine, i calciatori. Ma ora ci troviamo a competere con dei nuovi ricchi, che non fanno parte della nostra cultura. Io dico una cosa: il mercato è una componente per poter vincere, ma io non so più se stiamo parlando di dimostrare chi è il più forte. C’è anche una voglia di rivalsa con il vecchio continente, da parte dei nuovi ricchi. Vedi la Cina, gli Emirati, il Qatar, queste nuove realtà. Io sono felice di aver guadagnato meno di ora, ma di aver giocato quando ho giocato”.

Stasera tutti davanti alla televisione, c’è da tifare l’Italia contro la Spagna. Una partita, secondo Albertini, piuttosto difficile per gli Azzurri: La vedo difficile. Loro sono una squadra ormai consolidata anche se ha cambiato tanto e non hanno fatto bene neanche loro, negli ultimi tempi. Hanno smesso di giocare calciatori importanti, la storia di questa squadra. Loro però sono riusciti a lavorare bene con i settori giovanili dei loro club. Guardi quello che ha ottenuto la Nazionale spagnola, in relazione a quello che hanno ottenuto le squadre di club della Spagna. E la stessa cosa dobbiamo farla noi negli ultimi dieci anni. Se facciamo un paragone vediamo che il cammino della Spagna, sia la Nazionale che quella dei club, più o meno è uguale. Noi abbiamo fatto male gli ultimi due Mondiali. E, tra le squadre, solo la Juventus ha dato un segnale in Europa”.

Ad oggi, infatti, è ancora la squadra bianconera la squadra da battere: La squadra da battere è la Juventus. La Juventus sa vincere. E’ attrezzata sia come società che come squadra. Però che cosa è cambiato? Che se fino all’anno scorso dicevo che poteva perderlo solo la Juventus, lo scudetto. Quest’anno lo possono vincere anche altre. Io credo che oggi il Napoli sia veramente attrezzata per poterlo vincere perché ha tenuto giocatori importanti, la Roma sono curioso di vederla e poi continuo a sostenere che l’Inter è una delle squadre che già l’anno scorso era molto competitiva”.

In chiusura qualche parola sui giovani talenti del calcio italiano, con un esempio illustre: “Io dico che c’è una nuova generazione che sta crescendo e bisogna aspettarli, perché noi siamo il Paese dove un giovane dopo un anno di serie A è un fenomeno, il secondo anno non riesce e allora diciamo che si è montato la testa. Non abbiamo mai la costanza di aspettare un ragazzo e la sua crescita. Io porto l’esempio di uno dei giocatori più forti degli ultimi anni che è Iniesta. Io andai a giocare al Barcellona e vedevo Iniesta allenarsi e non giocare, entrare ogni tanto. Guardai la carta d’identità, aveva diciannove anni. Ha fatto tre anni con la prima squadra però non gli hanno dato mai la responsabilità, era un talento e a vent’anni è diventato titolare con l’esperienza di aver fatto panchina e campo. Questo vuol dire far crescere un giovane. Io mi sono sempre reputato un ragazzo normale che ha fatto qualcosa di speciale e mai un ragazzo speciale che ha fatto qualcosa di normale. Ci sono alcuni giocatori che invece pensano di essere speciali loro e giocano tanto per giocare”.



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