In cielo c’è una sedia da alzare. Addio Mondo, mago delle promozioni, condottiero di sogni e utopie
Quell’avversario senza maglia e senza pietà alla fine l’ha sconfitto. Ma quanto ha dovuto sudare per avere la meglio. Tempi supplementari lunghi sette anni, fino al triplice fischio nella notte: Emiliano Mondonico non c’è più. È morto a 71 anni dopo una lunga battaglia contro il cancro iniziata nel 2011.
Lo ha scoperto quando sedeva sulla panchina dell’Albinoleffe, nel mezzo di un inverno che gli ha fatto compagnia fino all’ultimo giorno. Non si è mai perso d’animo. Cuore Toro e tempra bergamasca, manifesto di resistenza. Ai dolori e alle ingiustizie. Come quella notte ad Amsterdam. Era il 13 maggio del ‘92, finale di ritorno della Coppa UEFA fra Ajax e Torino.
L’arbitro Petrovic non fischia un rigore netto su Cravero. La panchina granata scatta in piedi, Mondonico alza una sedia e la agita al cielo olandese. Un’istantanea destinata a diventare l’icona per tutti i Davide vessati dai Golia. Un gesto “pane e salame”, come lo avrebbe definito lui, che profuma di provincia e libertà.
Nell’epoca di Mani Pulite, la sedia di Mondonico è la rivolta degli eterni esclusi.
Sulla loro panchina si è sempre seduto Emiliano. Per quel gesto fu squalificato per una giornata. Mai scontata perché non ebbe altre notti europee. Mai scontato, invece, fu lui. Nelle dichiarazioni, non solo nei gesti. “Mentre avevo la sedia sopra la testa, vidi un gruppo di disabili davanti a me. L’abbassai subito. Capii che ci sono cose più importanti di un calcio di rigore”.
Fatalismo e saggezza, doti sviluppate in anni di imprese realizzate o solo accarezzate. Perché un rigore negato su Stromberg in Atalanta-Malines negò ai bergamaschi un clamoroso accesso alla finale di Coppa delle Coppe. Un percorso incredibile, considerando che i nerazzurri quell’anno giocavano in serie B. Il cammino europeo era figlio di una finale di Coppa Italia persa contro il Napoli di
Maradona, la reazione a quella sconfitta valse il ritorno in serie A.
Una delle cinque promozioni ottenute in carriera. Dalla prima con la Cremonese nel 1984, con un giovane Luca Vialli a guidare l’attacco, all’ultima – vent’anni dopo – con la Fiorentina.
Una squadra che ha sempre amato fin da bambino, per una polo viola che gli venne regalata da piccolo. I suoi coetanei tifavano Juventus, lui, nella sua Rivolta d’Adda, si mise dall’altra parte della barricata.
Un amore ricambiato dai tifosi fiorentini. Nessuno di loro dimentica la promozione nella notte di Perugia, vissuta con la tessera del Viola Club Settebello in tasca.
L’ovazione nel giorno della festa dei 90 anni gli aveva scaldato il cuore, facendogli dimenticare per un po’ quel maledetto avversario.
Contro di lui giocava una partita a scacchi. Non poteva contare sulle sgroppate di Lentini, sui colpi di testa di Silenzi o sulle reti di Riganò. Senza i suoi ragazzi accanto, si sentiva più solo. Ma non piangeva. Nella sua trattoria di famiglia apriva la porta a tutti e dispensava sorrisi. Magari sfogliava l’album dei ricordi.
Cartoline del suo passato da calciatore, quando volava sull’ala destra. Un George Best da osteria, senza gli eccessi del ragazzo di Belfast, ma con lo stesso animo rivoluzionario. Al Torino fu Meroni prima di Meroni, forse più caparbio, sicuramente meno estroso. Fu ribelle e anticonvenzionale.
Nell’aprile del ‘67, quando giocava nella Cremonese si fece espellere per saltare la partita successiva. Al Palalido di Milano si esibivano i Rolling Stones, il Mondo non poteva mancare. E non mancò. “Vidi Brian Jones su una sedia di legno, simile a quella che alzai ad Amsterdam. Poi entrò Mick Jagger. La settimana prima avevo insultato l’arbitro tutta la partita per quel momento”. Aveva vent’anni e il cuore già sulle barricate.
Si dice che chi è rivoluzionario a quell’età, poi diventa moderato a quaranta. Lui certamente non è stato fra quelli. Il Mondo, parafrasando Jimmy Fontana, non si è fermato mai un momento.
Sei anni fa, col male dentro, espugnò San Siro col suo Novara. L’ultima impresa da Robin Hood della sua carriera.
Non riuscì a salvarla. E alla fine, neanche lui è riuscito a salvarsi.
Ma caro avversario senza maglia, non sei riuscito a cambiarlo.
Ciao mister, timoniere di utopie mai dome.