“I Presidenti passano, le bandiere no”
Sono le 12.41 e Francesco Totti non è più un dipendente della Roma. Trenta anni dopo la prima volta in cui varcò i cancelli di Trigoria, quando biondissimo entrò con il petto gonfio di sogni e speranze, certamente non immaginandosi di diventare bandiera della Roma e tantomeno di ritrovarsi qui a doverla salutare il 17 giugno del 2019.
Una mail scritta di pugno duro inviata al CEO Fienga per sancire la separazione, violenta e traumatica come può essere tra due follemente innamorati. Lo fa pochi minuti prima di entrare dentro il Salone d’Onore del Coni, dopo aver tirato giù un sospiro, quasi a prendere il fiato prima di vuotare il sacco e raccontare la sua verità.
Consapevole che quelle parole andranno nel profondo di una spaccatura consolidata all’interno della dirigenza romanista. Come uno schiaffo benefico, ma in grado di insegnare molto di più di parole dolci e al miele.
Varca le porte della Sala un po’ meno sicuro del suo futuro, ma deciso e convinto di quello che succederà. Pesando e calibrando ogni parola. Stemperandola con qualche battuta per alleggerire. Ripetendo concetti chiave per farli arrivare senza filtri al destinatario che sicuramente da Londra e Boston lo starà ascoltando. “Il bene primario è la Roma” ed esce fuori il bambino tifoso.
Cita Pallotta e lo fa esplicitamente più volte, non cita mai Baldini forzando un turpiloquio pur di non pronunciare quel nome e quindi conclude dicendo che troppi galli cantare non servono.
Poi tocca al Totti dirigente criticare scelte di mercato e di gestione. Non fa nomi, ma si capisce che a Pastore avrebbe preferito Zyech dell’Ajax, che Di Francesco avrebbe voluto 4/5 rinforzi mai arrivati e che ovviamente lui De Rossi lo vorrebbe ancora con la fascia al braccio.
Quindi affida il testamento del futuro romanista direttamente a Lorenzo Pellegrini, senza però far riferimento ad Alessandro Florenzi. Perché c’è stata una detottizzazione, ma non potrà mai esserci una deromanistizzazione della squadra giallorossa.
Si concede per oltre un’ora alle domande incessanti, senza filtri, libero da pressioni e compromessi. Senza alcun legame, se non quello affettivo e passionale, con la Roma. Accompagnato da Vincent Candela e Alberto Aquilani due amici veri conosciuti all’interno di Trigoria, sui quali poggia sguardi e sorrisi quando la risposta si fa complicata. Perché loro lì dentro hanno vissuto e conosciuto anche i sospiri di quella che ora viene rappresentata come una polveriera.
Non c’è spazio per le lacrime di tracciare il volto, il viso è tirato per evidenti giorni passati a confrontare pro e contro della decisione. Lacrime versate ormai completamente due anni fa, quando gli fu imposto di terminare lì una carriera che avrebbe voluto continuare. Altro sassolino che cade dalla scarpa e va a riempire il sacco ormai colmo di dettagli accumulatisi in appena due anni vissuti in giacca e camicia lontano dal campo.
Sono le 14.19, settanta minuti dopo, Francesco Totti si alza dalla sedia, più leggero dopo aver vuotato il sacco. Triste, perché “È dura staccarsi dalla mamma”. Ma anche più libero: “Lo sai che farò? Prendo Daniele e andiamo insieme a vedere la partita in Curva Sud”. La nemesi di una bandiera, nato tifoso e diventato calciatore, issato come bandiera e diventato idolo, ritorna lì dove tutto è nato. Nel cuore del tifo, dove nasce e si alimenta l’amore per una squadra. Quello che ha guidato Totti in questi trenta anni di carriera e lo ha spinto oggi a farsi da parte.