Calciosofia – Ode a Johan Cruijff: un po’ Platone, molto Kant e un pizzico Guardini
L’accostamento fra filosofia e pallone è tanto affascinante quanto inevitabile. Il calcio è molto più di un semplice sport, e come tale va trattato. Noi ci divertiamo così: a far sporcare le mani – e i piedi – alla filosofia, facendola parlare di calcio. Con semplicità, rispetto e un pizzico d’ironia. Perché, come dice Mourinho, “chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio”
Il Profeta del Gol, il Pelè Bianco, l’Olandese Volante. Ma comunque lo si voglia chiamare e ricordare, Johan Cruijff rimane e rimarrà sempre Johan Cruijff. Un giocatore talmente particolare e rivoluzionario da cambiare il destino del gioco per sempre. Può anche essere considerato il primo vero giocatore-allenatore-filosofo: il suo modo di pensare e le sue massime resteranno scolpite nella storia, fondamenta per la crescita di altri “grandi” che a Cruijff si sono ispirati e si ispireranno. Ma non solo: Johan è stato anche valida incarnazione di alcuni principi filosofici. D’altronde, quando lo si vedeva giocare, non si poteva parlare “solo” di calcio, ma era necessario per forza di cose andare oltre, a un altro piano di riflessione: non per capire, ma almeno per godere appieno dell’infinita classe dell’olandese. Viene quasi naturale affibbiargli il termine “genio”, ma cosa vuol dire davvero? Per Kant è semplice: genio è chi produce arte bella. E quindi, chi se non Cruijff? Per chi avesse qualche dubbio – ma chi ne avrebbe…- il consiglio è di rivedere la perla contro l’Atletico Madrid del 22 dicembre 1973 al Camp Nou. Il cross dalla destra, poi lo stacco in contro tempo, e l’impatto con il pallone con l’esterno del piede della gamba destra, andata altissima. Solo un genio può concepire un gesto del genere. Quali sono le facoltà in gioco? Innanzitutto l’immaginazione, che crea dal nulla qualcosa di nuovo mai visto prima. Poi, l’intelletto, che nell’esatto momento della creazione dell’opera d’arte scrive regole che in precedenza non c’erano. Non si tratta di costrizione razionale, ma possibilità di realizzare qualcosa che soddisfi il gusto di chi esegue e di chi guarda. Lo stesso discorso vale per la famosa “Cruijff Turn” o la “Giravolta di Cruijff”, un gesto inventato proprio dall’olandese che non sarebbe possibile senza questa sintesi kantiana. Concetto rimarcato da Cruijff stesso, che pensava che “ciò che mi distingue da tutti gli altri è la capacità di vedere prima”: è la definizione sia di immaginazione che di intuito, culmine massimo dell’intelletto del genio.
In questo modo Cruijff ha creato una sorta di nuova e personale estetica, che ad esempio va contro quella platonica. Se per il greco l’arte ha un potere quasi distruttivo e viene vista come copia della copia del mondo ideale, l’arte che esce dai piedi dell’olandese – ma soprattutto dalla testa – è effettiva produzione ideale. Non esiste imitazione, ma invenzione di un nuovo modello che diverrà fonte di ispirazione per gli anni a venire. Un’estetica del calcio simile allora – ancora una volta – a quella dello stesso Kant, che definisce il bello (prodotto del genio di cui sopra) come una sorta di piacere disinteressato, che non ha scopo, ma è bello perché è bello per me e per gli altri. E i gesti di Cruijff sono così: vanno oltre ai meri risultati del campo e vengono ricordati perché sono belli. Come il tiro in volo del 3 luglio 1974 ai Mondiali contro il Brasile. Semplicemente impensabile, totalmente bello. E riprendendo Kant, il bello piace universalmente: chi non è catturato dalle giocate sopraffine di Cruijff? E soprattutto, il bello piace senza interesse, cioè senza un fine pratico: l’olandese meraviglia semplicemente perché meraviglia. Nella discussione possiamo inserire anche Romano Guardini, filosofo dell’arte (e non solo) del XX secolo. Guardini si spinge oltre: per l’opera d’arte è essenziale avere non uno scopo, bensì un senso. Lui la definisce come “forma che rivela”. I colpi dell’olandese hanno un senso ben preciso, inserito nel sistema di gioco. E ogni tocco di Cruijff è esattamente “forma che rivela”, svela e scopre una maniera totalmente nuova e innovativa di intendere il gioco del calcio. In più per Guardini l’artista formando l’opera rende manifesta anche la sua essenza: infatti noi abbiamo conosciuto l’uomo-Cruijff anche da quello che faceva sul rettangolo verde. Da ultimo, l’opera d’arte va contemplata. Va vista e rivista, proprio come un passaggio in verticale dell’ex giocatore dell’Ajax.
Ma oltre ad essere un individuo particolare, Cruijff è stato alfiere del modo più collettivo di giocare che si sia mai visto: il calcio totale. Tante avanguardie calcistiche – quella dell’hegeliano tiki-taka su tutte – gli devono qualcosa. Gli esterni che salgono, il centrale che costruisce l’azione, l’inserimento dei centrocampisti e il ripiegamento degli attaccanti: ogni volta che vediamo questo tipo di azioni bisogna dire grazie a Cruijff e Michels, inventori di un sistema quasi perfetto. Che parte innanzitutto su un maniacale controllo degli spazi, basato su un’intuizione di Cartesio. Il francese nega l’esistenza del vuoto: lo spazio in quanto tale deve essere riempito da qualcosa. L’Olanda e l’Ajax del calcio totale muovono da questo punto: l’obiettivo è controllare gli spazi del campo, così come gli olandesi nei secoli hanno cercato di sfruttare gli spazi della loro terra rosicchiata dal mare. Al centro del sistema non c’è il pallone, ma un modo di muoversi quasi meccanicistico fatto di letture e di movimenti. E di spazi mai vuoti, al massimo della fluidità. Da qualche giornalista venne definito come “caos organizzato”, una descrizione perfetta di quello che succedeva in campo. Prendiamo il primo minuto della finale mondiale del 1974 contro la Germania. Cruijff gioca la palla senza correre e con le braccia e con la voce dà indicazioni ai compagni. Organizza il caos. È lo stesso compito del Demiurgo di Platone – quasi un dio -, che plasma la materia a somiglianza delle Idee. Solo che in questo caso la materia sono i movimenti dei compagni e le Idee sono quelle che ha in testa lo stesso Cruijff. Il Demiurgo svolge anche una funzione quasi provvidenziale: se non ce la fanno i compagni, la palla la prende Cruijff stesso e dopo sei secondi è già a conquistarsi il calcio di rigore. Che comunque non deciderà la partita. Ma tanto lo sappiamo: la bellezza deve essere bellezza disinteressata, senza uno scopo, ma solo con un senso. Quale? Semplicemente Hendrik Johannes Cruijff.
A cura di Luca Mastrorilli