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Calciosofia – La filosofia di fronte al dischetto: da Socrate a Kierkegaard, la questione dei rigori

L’accostamento fra filosofia e pallone è tanto affascinante quanto inevitabile. Il calcio è molto più di un semplice sport, e come tale va trattato. Noi ci divertiamo così: a far sporcare le mani – e i piedi – alla filosofia, facendola parlare di calcio. Con semplicità, rispetto e un pizzico d’ironia. Perché, come dice Mourinho, “chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio”

Calciatore contro portiere. Portiere contro calciatore. Il rigore è uno degli elementi più misteriosi e allo stesso tempo affascinanti del calcio. A gioco fermo si affrontano attacco e difesa, in una sfida che in teoria sarebbe clamorosamente sbilanciata verso chi calcia, ma a volte regala sviluppi imprevedibili. In fondo, è così difficile segnare un penalty? Si tratta solo di piazzare un pallone in porta. Un giocatore professionista dovrebbe farlo ad occhi chiusi. Ma non è quasi mai così. E i filosofi? Come calcerebbero un calcio di rigore se venissero chiamati in causa? Sicuramente Schopenauer non avrebbe timore alcuno: tanto, se avesse sbagliato, si sarebbe riparato dicendo che ciò che vediamo è pura illusione. Socrate forse non batterebbe: in fondo sapeva di non sapere (giocare a calcio) ed era abbastanza umile per ammetterlo. Aristotele lo avrebbe sbagliato, perché il “giusto mezzo” fra tirare rasoterra e all’incrocio è a mezz’altezza, proprio dove i portieri te lo parano. E se siamo sicuri che Camus sarebbe stato sicuramente in porta, Heidegger avrebbe avuto moltissima Cura a calciare, da buona ala sinistra qual era. Hegel tirerebbe in mezzo – magari col cucchiaio -: perfetta sintesi fra tesi (destra) e antitesi (sinistra). Nietzsche si farebbe consigliare dal suo superuomo per calciare una classica cannonata. Platone è per il rigore Ideale: bello pulito all’incrocio dei pali. Pascal non starebbe neppure giocando a calcio con loro: il pallone è solo un divertissement. Per Guglielmo D’Occam, una bella rasoiata all’angolino, senza fronzoli. Gli scettici prima di calciare si chiederebbero se effettivamente il rigore ci fosse… Magari è colpa di Adam Smith e della sua Mano Invisibile, utile per ingannare qualsiasi arbitro. Erasmo da Rotterdam tirerebbe un penalty folle (magari di tacco), e Galileo Galilei lo sparerebbe alle stelle. Cartesio sarebbe preso dal dubbio: angolato o centrale? Forte o piano? Neppure Kant si sarebbe tirato indietro: l’imperativo categorico lo obbligherebbe a tirare. E se per Feuerbach l’uomo è ciò che mangia, tirerebbe una mozzarella in bocca al portiere. Per Freud il discorso non sarebbe così semplice: batterebbe ascoltando il suo inconscio (“Mo je faccio er cucchiaio”) o il super-io (“Tiriamola piano e angolata”)? Leibniz probabilmente calcerebbe il migliore dei rigori possibili, mentre Epicuro si rassegnerebbe semplicemente al caso: come va, va. Non avrebbe avuto paura neanche un qualsiasi stoico. Calciarlo di destro, di sinistro, forte in mezzo o a incrociare sarebbe uguale: il futuro è già deciso dal Logos. Crediamo che Anassimene si prenderebbe volentieri la responsabilità, ma poi manderebbe tutto all’aria. Se volessimo essere sicuri di metterlo dentro, sceglieremmo Marx: pragmatico qual è, non sarebbe certo andato per il sottile. E Zenone? Beh, l’inventore del famoso paradosso di Achille e la Tartaruga non sarebbe mai arrivato al dischetto. E se alla fine della sfida ai rigori qualcuno si fosse stancato, in fondo ci sarebbe stato Talete con qualche borraccia d’acqua.

Ma facciamo un po’ i seri. Kierkegaard non conosceva il calcio: è morto nel 1855 in Danimarca, qualche decennio prima che il gioco più bello del mondo salpasse dalle coste inglesi per raggiungere l’Europa continentale. Ma era comunque un uomo di mondo: nelle sue passeggiate per Copenaghen parlava spesso con la gente del più e del meno, e forse il pallone gli sarebbe piaciuto davvero. Sicuramente quando scriveva uno dei suoi capolavori – Il concetto dell’angoscia – non sapeva di stare descrivendo quello che succede in un calcio di rigore. Uomo contro portiere, chi deve calciare ha davanti a sé centinaia di possibilità. Per Kierkegaard, questa enorme apertura verso il possibile fa provare angoscia al battitore. Il filosofo paragona l’angoscia alla vertigine, definendola “vertigine della libertà”. Questo sentimento deriva dalla paura di compiere la scelta, a causa dell’incertezza e dell’importanza della decisione. D’altronde, non è per nulla facile prendersi la responsabilità di calciare un rigore – pensiamo a una finale Mondiale -, e in quei metri da percorrere fra il centrocampo e il dischetto, la mente prova tutte queste cose. È allora più facile scegliere di non scegliere, e la strada più semplice per tirare un rigore è proprio non calciarlo. Quante volte abbiamo sentito di giocatori che si sono rifiutati di calciare perché non se la sentivano? È l’angoscia di fronte al possibile. Che – attenzione – non è la paura (come distinguerà meglio Heidegger), perché questa è sempre motivata da qualcosa di preciso, mentre l’angoscia teme la solitudine davanti ad una scelta con moltissime possibilità. Proprio come in un rigore. Non è facile vincere l’angoscia: Kierkegaard direbbe che ci vuole fede. In sé e in Altro. Ma stiamo comunque parlando di un rigore: chi ne ha mai tirato uno a cuor leggero?

Anzi, più si alza il livello – pensiamo alle finali – più paradossalmente la sfera pesa. Non ci credete? Telefonate prima a Trezeguet e poi a Grosso e fatevi raccontare di come è andata nel 2006 e delle emozioni che hanno provato. Il rigore va oltre al gesto tecnico, dietro c’è di più. Come quando Van Gaal nei Mondiali 2014 ha deciso di cambiare Cilessen con la riserva Krul. Quest’ultimo in carriera aveva sventato solo 2 rigori su 34 (non proprio un drago) ma la mossa è stata vincente, e Krul protagonista assoluto. Scavando a fondo, è evidente che il bello dei rigori sia innanzitutto che dimostra che noi siamo liberi. Liberi di calciare dove vogliamo, liberi di sbagliare. Lo direbbe anche Aristotele: il fine di ogni azione morale è il bene – segnare – e l’azione libera deriva da noi stessi e non da fattori esterni. Anche Kant sarebbe d’accordo: ci sono gli impulsi – quando un calciatore pensa subito che tirerà da un lato – ma alla fine la scelta è sempre libera, nel senso che poi sarà la ragione a decidere. E se non segni è solo colpa tua: Kant verrebbe da te a dirti che non hai esercitato bene la ragione. Ma per lui è facile parlare…

A cura di Luca Mastrorilli