L’Olivetti e la pipa: Gianni Brera, l’Omero del nostro calcio
Fare melina. Sprecare una palla gol. La pretattica. Andare in contropiede. Parole che usiamo ogni giorno per raccontare una partita. Un gergo con cui siamo cresciuti, credendo forse che quelle espressioni esistano da quando rotola un pallone. Non è così. Un cantore del gioco le ha inventate e rese eterne. Uscivano da una macchina da scrivere Olivetti, circondate dal fumo della sua inseparabile pipa. L’uomo che le faceva nascere si chiamava Gianni Brera ed è stato l’Omero del nostro calcio.
Sapeva essere popolare senza cadere nel populismo lessicale. Leggere un suo pezzo significava calarsi nel suo mondo, districarsi fra intuizioni, citazioni altissime, neologismi e soprannomi. Non poteva accettare i limiti del vocabolario e li estendeva costantemente. Avrebbe voluto fare il calciatore, ma i suoi piedi, soprattutto il sinistro, non erano all’altezza della sua penna. E così fin da giovanissimo, abbandonò il campo per passare dall’altra parte. Scelse il giornalismo per affrancarsi da un’infanzia di stenti nella Bassa Pavese, la terra che porterà sempre in ogni sua riga. Una “scorciatoia per i poveri”. Così definiva la professione. Aveva iniziato minorenne al Guerin Sportivo. Ma dovette interrompersi. Come tanti ragazzi della sua generazione. Era nato nel ’19 e la guerra rimandò la sua narrazione.
Quando ricominciò, nel ’45 alla Gazzetta dello Sport, partì dall’atletica, studiando i meccanismi neuro muscolari e psicologici del corpo umano. Un gigante, anche nel raccontare il ciclismo, la “massima espressione popolare”. Essere un “contadino”, “plebeo”, autoproclamato “principe della zolla”, lo rendeva impareggiabile nel descrivere la faticosa nobiltà dei pedali. Un neorealista prima del cinema, un pittore, con la penna al posto del pennello. L’orgoglio italiano che usciva dal conflitto mondiale si leggeva sul volto di Coppi o sulle sue pagine.
A trent’anni fu nominato direttore della Gazzetta dello Sport. Prestissimo, anche, o soprattutto, per i canoni dell’epoca. E lì finalmente, fu libero di scrivere di pallone. A modo suo, ovviamente. Alternando la passione per buona cucina e grandi vini a disquisizioni tattiche e slanci letterari verso atleti impavidi. Fu così, unendo l’amore per il Barbaresco a quello per il gioco difensivista – “il più congeniale alle nostre caratteristiche fisiche” – che trovò una sponda con il Paròn: Nereo Rocco. D’accordo su tutto o quasi. E quel “quasi” era Gianni Rivera. L’abatino, lo chiamava Brera, che non ne apprezzava “il poco slancio atletico, lo scarso coraggio, la tendenza a danzare, anziché giocare al football”. Preferiva la sostanza allo stile, soprattutto se incline al barocco. Non avrebbe amato il tiki taka, così come non fu mai discepolo della rivoluzione sacchiana. Diffidava delle innovazioni sul campo, riservandole alla sua prosa. Raccontano che in tribuna stampa arrivasse come un re, guardandosi intorno, prima di annunciare chi sarebbe stato il centrocampista o il libero titolare. Ruoli che, almeno su carta, aveva inventato lui. Fra Pirlo e Gattuso, forse avrebbe scelto quest’ultimo. Forse, perché difficilmente avrebbe preferito un calabrese a un lombardo. Questioni di radici e di scarso interesse per il politicamente corretto.
Il calcio era il suo contenitore magico. Gli serviva per raccontare l’umanità, sua vera passione. Uomo eternamente circondato da adepti e colleghi, solista eccezionale che non sopportava la solitudine e la fuggiva in ogni modo. Per questo riuniva il suo gruppo ristretto, quello della redazione del “Giorno” o quello di “Repubblica” in un ristorante milanese. Faceva l’alba fra briscole e bicchieri, parlando di letteratura o di caccia, come faceva nell’ “Arcimatto”, la posta dei lettori che teneva al “Guerin Sportivo”. La sua valvola di sfogo, il suo vaso di Pandora.
Da buon romanziere, ribattezzava i protagonisti. Bonimba, Rombo di Tuono, Puliciclone. Ancora oggi Boninsegna, Riva e Pulici li conosciamo così. Ne aveva uno per tutti, non sempre erano agiografici: Causio diventò “Baron tricchetracche” e se la prese un po’. Tardelli non amava essere definito “Gazzellino” e prima del mondiale ’82 lo apostrofò pubblicamente. Un gesto di cui si sarebbe sempre pentito, perché non aveva capito che sotto quella corazza ruvida si celava un uomo che giocava. La fantasia di un bambino, l’iperbole del poeta.
Quel trionfo spagnolo lo celebrò, come aveva promesso, andando a piedi in un santuario mariano del milanese. Una penitenza da scontare. Uomo di parola e di parole. Non era per tutti, GioannbrerafuCarlo. Soffriva terribilmente lo scorrere del tempo e l’avanzare del modernismo. Nel calcio e nella vita. Sarebbe curioso sapere cosa avrebbe scritto di un tweet o di una storia Instagram. Come avrebbe raccontato Italia-Svezia o la Milano in mano ai cinesi. Le parole che conosciamo non gli sarebbero bastate di sicuro. Non lo sapremo mai, perché un incidente stradale ce lo ha portato via il 19 dicembre del 1992. Era nato l'8 settembre 1919, aveva appena compiuto 73 anni. Era a Codogno, a due passi da casa. La terra da cui non si è mai separato, quella in cui è sepolto il suo corpo.
L’unica cosa di lui che non c’è più. Perché quando l’arbitro fischia l’inizio, parliamo tutti con le sue parole. O almeno, vagamente, ci proviamo.