Interviste e Storie

Sinner e il calcio, l’ex presidente: “Era il più forte della squadra”

Jannik Sinner con la maglia della sua squadra di calcio

Da piccolo correva tra le strade di Sesto, ora corre, anzi si conferma sul tetto del mondo con la vittoria del suo secondo Australian Open.

Il viaggio di Jannik Sinner è iniziato così, in un paese di neanche 2mila abitanti. “A tre anni sulle piste sciava tutto il giorno e non voleva mai andare a casa. E sulla neve era davvero bravo. Mia sorella era la sua allenatrice”.

Il ricordo è di Wolfram Egarter, ex presidente dell’Afc Sexten, la prima società di calcio di Sinner. Di calcio? Sì, esatto.

“Il più bravo della squadra. Non stava mai fermo, voleva sempre fare sport. Faceva sci, calcio e tennis insieme. Succedeva spesso che nella stessa giornata si allenasse negli altri sport e poi venisse al campo”.

Fisico magro, sguardo sveglio e capelli rossi e lunghi: “Chi non lo conosceva lo scambiava per una bambina”. Le punizioni provate, gli insegnamenti di papà e un allenamento segreto: un viaggio nel passato (calcistico) di Sinner.

Il calcio e la famiglia

Il padre giocava con me in Seconda Categoria. Fu il suo primo allenatore nell’U6 nell’Afc Sexten”, racconta Egarter. “Durante una partita Jannik dribblò tutti e segnò. Il padre lo sostituì”. Il monito al figlio: “Devi passarla agli altri bambini. È uno sport di squadra, c’è bisogno di tutti”. L’educazione dei genitori: “L’hanno sempre lasciato libero di scegliere. Loro lavoravano in un rifugio, Jannik stava spesso con i nonni. Veniva con loro agli allenamenti”.

Ma era più forte lui o il signor Hanspeter? “Jannik! Il papà non era molto bravo, ma è sempre stato una persona eccezionale. In una partita, essendoci un avversario fermo a terra, raccolse la palla in area con le mani per farlo soccorrere. L’arbitro fischiò rigore. Era così, sempre attento agli altri”. Ma poi segnò quel rigore? “No, sbagliò appositamente“.

 

Jannik Sinner (Imago)

“Faceva 20/30 gol all’anno”

Era molto magro, ma aveva una coordinazione incredibile”, continua l’ex presidente. Grande mentalità fin da piccolo: “Pensava a come poter migliorare ogni giorno e voleva sempre vincere. Dopo gli allenamenti si fermava da solo a calciare le punizioni. Gli comprammo un cerchio da mettere all’incrocio per esercitarsi”.

Un esempio per i compagni: “Era una guida per gli altri. Due anni dopo il suo addio, la squadra ha vinto il campionato dell’Alto Adige. Parte del merito era suo, era riuscito a far crescere gli altri”. Centrocampista di quantità e qualità: “Correva e impostava, un numero 10. E segnava tra i 20 e i 30 gol all’anno”. L’ultima partita a Bressanone con i Giovanissimi “anche se lui era un esordiente. Poi partì per Bordighera per concentrarsi sul tennis”.

La maestra, la scuola e la fama

Non fu facile rinunciare a lui. Non comprendevamo molto la scelta”. Il motivo l’aveva ben chiaro l’unico allenatore di tennis della valle: “Conosceva il valore di Jannik, era l’unico bambino che allenava singolarmente e non in gruppo”. Anche a scuola “era un perfezionista, anche troppo. La maestra chiese alla mamma di togliere di nascosto un quaderno dal suo zaino. Arrivato in classe senza libro, spiegò al piccolo Jannik che non era successo nulla di grave, gli errori facevano parte della vita”.

Poi il successo nel tennis, senza dimenticare il passato: “Dopo il Next Gen di Milano, venne ad allenarsi, nessuno però doveva saperlo. Nessuno osava toccarlo per paura di fargli male. Poi andammo a mangiare una pizza”. Un legame con le origini: “Si sente ancora con i suoi ex compagni. La cosa più bella è vedere che non è cambiato. A ottobre abbiamo parlato un po’, mia figlia lo guardava a bocca aperta”.Non fare così, sono una persona normale. Per voi sono Jannik”.

Nicolò Franceschin

Nato nel 1997 tra Milano, Como e Lecco. Laureato in Giurisprudenza, ma ai codici ho preferito una penna. Cresciuto con Maradona (il calcio), ma anche Ronaldinho e Sneijder. Il fascino del numero 10. Credo nella forza delle parole. Verità e narrazione. In giro in macchina per stadi, campi e strade alla ricerca di nuovi colori da scrivere, perché ognuno ha una sua sfumatura. Le note del telefono che si riempiono di storie, alcune il cui finale è ancora tutto da scrivere. Una di queste è la mia. Raccontare emozioni e dare voce a chi non ce l’ha.

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