Se chiudo gli occhi davanti a me appare un’immagine di mio nonno Ottavio. Non penso di averlo mai raccontato a nessuno. Ero un bambino, andavo ancora alla scuola calcio. Come sempre mi aveva accompagnato all’allenamento. Quel giorno diluviava, diluviava forte. Mi aveva dato il suo ombrello per non bagnarmi. Per arrivare al campo si doveva passare da una porta minuscola. Io, però, non riuscivo ad attraversarla con in mano quell’ombrello e continuavo a sbattere. Dopo alcuni tentativi, mio nonno, completamente lavato per la pioggia, si è avvicinato e mi ha mostrato come fare.
Può sembrare una immagine piccola, è vero. Per me, però, quel momento racconta tanto. Anzi, forse tutto. Racconta un amore di un nonno per suo nipote. Racconta il darmi con il suo esempio quotidiano e i suoi valori degli strumenti e delle nuove prospettive per costruirmi il mio futuro. Ha dato la sua vita per permettermi di inseguire il mio sogno. Il suo era un affetto totale e incondizionato, un donarsi completamente per il bene altrui.
Qualche anno fa nonno se n’è andato per una brutta malattia ai polmoni. Non stava bene ed era in ospedale. Quando è scomparso ero in ritiro con la Nazionale. Il giorno prima della partita mi è arrivata la chiamata dei miei genitori: nonno non c’era più. Sono andato da lui. Non avevo fatto in tempo a salutarlo. Questo, forse, non l’ho ancora metabolizzato del tutto. Ma è anche vero che ero in Nazionale, un sogno raggiunto per lui, grazie a lui. E credo che il mio saluto sia stato essere convocato in azzurro, un modo per ringraziarlo. Un saluto particolare. Un saluto solo nostro.
E tutto ciò che ho costruito è stato anche grazie a lui. Lo so, anni fa speravo di fare una carriera diversa. Ero ritenuto uno dei talenti più importanti in Italia, avevo giocato da sotto età un gran Mondiale, avevo esordito con il mio Bari. Poi scelte sbagliate, sfortuna e infortuni hanno deciso un destino diverso. Sono stato male. Ho conosciuto il malessere interiore. Ma mi sono riscoperto. Ora lavoro con i giovani e sogno di allenare il Bari. Sono nato con una palla e probabilmente morirò con una palla. Ecco, nonno e i suoi insegnamenti mi hanno permesso di rimanere in piedi quando la terra sotto ai piedi stava per scomparire. Io non sono scomparso. Io (ci) sono.
Il mio viaggio è iniziato con una palla di spugna stretta tra le braccia e una gamba fratturata. È il mio primo ricordo con un pallone. Avevo tre anni e mi ero già ritrovato ingessato e dolorante per il calcio. Insomma, fin da subito amore e sofferenza. Mia madre voleva che facessi nuoto, era più sicuro. Sono durato una settimana: “O mi porti a calcio o mi rifiuto di fare qualsiasi altra cosa”. Dopo qualche anno sono entrato nel “mio” Bari. Grazie a mio cugino ero venuto a sapere che ci sarebbe stato un loro provino. Il mio club non mi faceva andare, così avevo deciso di farlo da solo. I provini erano composti da diverse selezioni. Alla fine della seconda eravamo nello spogliatoio. Uno a uno avevano chiamato gli altri bambini. Il mio nome non era stato fatto. Ero rimasto lì, solo. Per fortuna Michele Trigiani, un loro dirigente, si era accorto di me: “E tu chi sei? Che ci fai qui?”. “Sono Giuseppe Scalera, faccio il trequartista”. “Guarda, purtroppo i posti davanti sono finiti, ti tocca difendere. Stai e fai il difensore centrale”. Ho accettato, quel provino dovevo farlo. Poco dopo il mitico Giovanni Loseto, bandiera storica del Bari, mi ha mezzo a fare il terzino. Sono passato al terzo provino. “Ti faremo sapere”. Non è una bella frase. È vuota, non sai bene cosa possa significare. Sono tornato a casa. Sono passati mesi. Poi è arrivato quel giorno.
Era agosto. Ero in macchina con i miei genitori dopo essere stati al supermercato. Suona il telefono di papà: “Mi dispiace chiamarla così, ma sono mesi che cerchiamo di rintracciarla perché suo figlio non ha lasciato nessun recapito l’ultima volta che è stato da noi. La volevamo informare che da settembre suo figlio farà parte del Bari”. Ho iniziato a saltare, per poco non rompevo il tettuccio. All’improvviso il mio sogno era diventato realtà. La mia carriera è stata così. Fatta di sorprese e variabili incontrollabili. Ma una cosa c’è sempre stata: non ho mai smesso di crederci. Se lavori tutto torna in un modo o nell’altro. Ed è stato così che ho iniziato l’avventura nel Bari. Bari che per me è casa. Bari che vive in me. Le sue vie, i suoi sentimenti, i suoi colori, il suo accento. Bari e la baresità fanno parte del mio essere.
Crederci, dicevamo. È andata così anche con la Nazionale. Nell’anno dei giovanissimi, è arrivata la prima convocazione. Se me lo aspettavo? Sì e no. Avevo lavorato tanto per arrivarci. Lo speravo. Però lo sapete, se non giochi in uno dei club più forti della Serie A è più difficile essere chiamati. Ma io sono un sognatore, non mi sono mai arreso. La prima competizione internazionale è stata l’Europeo U17. Dei 25 convocati iniziali ne sarebbero rimasti solo 20. Alla fine della settimana di preparazione avevo la sensazione che non sarei stato scelto. Nell’ultima amichevole prima della partenza abbiamo giocato contro la Roma. Sono entrato nel secondo tempo e ho segnato la prima e unica rete in azzurro. Alla fine sono stato selezionato nella lista dei convocati. E per me quella partita è stata decisiva.
E poi c’è stato il Mondiale U20 giocato da sotto età. Ero appena tornato dall’Europeo U19. A causa di un infortunio, vengo chiamato e sono andato a Coverciano per la prima parte del ritiro. Barella, Dimarco, Orsolini… eravamo una grande squadra. E io mai mi sarei aspettato di essere lì con loro. Da non dover andare mi sono ritrovato a giocare tutte le partite da titolare. Avevamo vinto il girone, ma non ci sembrava una cosa molto positiva. Il motivo? Avremmo incontrato la Francia di Mbappé e Thuram. Sembravamo spacciati, ma è andata diversamente. Sacrificio e spensieratezza, abbiamo reso possibile l’impossibile. Purtroppo abbiamo perso in semifinale contro l’Inghilterra, ma è stata un’esperienza fantastica. Mi porto dentro tante immagini di quelle settimane. Ricordo il diario di viaggio di Pessina, il tiro da 30 metri di Dimarco, la simpatia di Orsolini, la professionalità di Barella. Nicolò lo porto spesso come esempio ai miei ragazzi. Anche nei momenti di svago lui pensava a come migliorare o a cosa fare per stare meglio: esercizi, posture, massaggi. Aveva una mentalità da professionista.
Sembrava tutto perfetto. Avevo esordito con il Bari in un derby contro l’Avellino. Avevo giocato un grande Mondiale. Ero passato in prestito alla Fiorentina, facendo poi ottime prestazioni. L’estate successiva è cambiato tutto. A causa di problemi con il Bari e con il mio agente non ero stato riscattato. Da quel momento sono stato travolto dallo scorrere degli eventi. Ma andiamo per gradi. A Bari con l’arrivo di Grosso non ho più trovato spazio. Ho deciso di andare ad Andria per trovare spazio. Ci siamo salvati sul campo, ma la società è fallita. Tornato a Bari ho avvisato subito il mio procuratore: “Voglio andare subito in prestito, non devo ripetere l’errore dello scorso anno”. Così sono passato alla Pistoiese.
A metà luglio è arrivata una nuova batosta: il Bari stava fallendo. Si è arrivati a fine agosto e il mio prestito era decaduto. A fine mercato tutte le squadre erano fatte, chi mi avrebbe preso? Il procuratore mi ha consigliato di andare a Pescara. Non avrei trovato spazio probabilmente, ma almeno non sarei rimasto fermo. Così è stato, nessun minuto giocato. A gennaio chiedo di andare via. Si è presentata un’opportunità a San Benedetto. Sembrava tutto a posto finalmente. Per una volta dopo tanto tempo anche io potevo tornare a essere felice su un campo da calcio. Avevo anche trovato casa. Ma è andata diversamente. Dopo una settimana in FIGC del mio trasferimento segnalava dei problemi. Per il sistema io avevo già cambiato tre squadre, il massimo previsto in un anno: Bari, Pistoiese e Pescara. Ma io a Bari e Pistoia non avevo mai giocato. Un incubo.
Sono tornato a Pescara. Ho chiesto di poter scendere in Primavera, non ne potevo più di allenarmi e basta, volevo giocare. Alla prima partita in un cambio di direzione mi sono rotto il crociato. In testa ho ancora il suono di quando mi sono rotto il ginocchio. Crack, crack, crack. Tre suoni. Forti, decisi, indimenticabili. Quando sono andato a fare la doccia ricordo di aver provato una sensazione strana. La gamba era come addormentata e quando è andata in iperestensione è come se si fosse separata in due. In quel momento mi sono reso conto della gravità dell’infortunio. Ricordo bene di quella notte. Mi ero addormentato con un po’ di dolore alla gamba. Al mio risveglio non riuscivo più né a muoverla né ad appoggiarla. Arrivato al campo ho avuto la conferma durante la visita con il fisioterapista: il crociato si era rotto. Davanti a me mesi e mesi senza poter fare ciò che aveva riempito ogni mio giorno. Era la mia vita e la vedevo lontana.
È iniziato il mio calvario. Di nuovo, ancora più pesante. Mi sono operato. Sono tornato dopo sette interminabili mesi. Ma c’era qualcosa che non andava. Il ginocchio era ancora instabile. Ho continuato a curarmi. Nel mentre sono passato alla Viterbese. Dopo quattro mesi di fisioterapia, tutto sembrava andare per il meglio. Fino a quel giorno. Eravamo in campo per la rifinitura, un mio compagno mi è caduto sul ginocchio: il menisco si è rotto. “Un’altra volta”. Tempo di recuperare ed ecco il Covid. Tutto fermo. Per me è stata la possibilità di fermarmi. Fermarmi davvero. E in modo diverso dal passato in cui il mio unico pensiero era recuperare il prima possibile. Questa volta avevo del tempo per me e con me. Uscire da quell’incessante vortice fisico e mentale che mi imponeva di guarire, tornare al mio livello, dimostrare. Ho potuto rallentare. Ho potuto ascoltarmi e guardarmi dentro. Vedere come la mia era diventata quasi una sola ostinazione, una mera sfida con me stesso e il mio non volermi mai arrendere. Ho iniziato a conoscermi e osservarmi con un nuovo sguardo.
Qualcosa in me era iniziato a cambiare. Dopo un buon anno a Gravina in D quella sensazione era sempre più forte. Non ero motivato, gli stimoli erano sempre meno. Volevo vivere di emozioni e in quelle realtà per me erano sempre meno. Volevo fare il professionista. Da calciatore non mi era più possibile, l’avrei fatto da allenatore. Ho deciso di smettere per costruirmi un nuovo futuro. Ero pronto per farlo. Avrei cambiato la mia vita, ma era il momento giusto. Se ricordo il giorno in cui ho deciso di smettere? Stavo parlando con la mia ex ragazza e le stavo esprimendo la mia insoddisfazione per la mia situazione. Tutti quei mesi avevano portato un cambiamento dentro di me, una consapevolezza di dover fare qualcosa per me. Avevo bisogno di uno stacco netto. Dovevo prendere una nuova strada.
Quando ho detto addio al calcio ho provato una sensazione di libertà e leggerezza. Mi ero lasciato alle spalle un peso che portavo con me da troppo tempo. All’inizio ho faticato a fare i conti con il giudizio delle persone. “Perché hai smesso? Dovevi continuare. E ora cosa farai?”. Me lo chiedevano tutti. Lo facevano di continuo. E io non ci stavo bene. Con il tempo ho imparato a gestire la situazione e non dare importanza alla gente. È stato un passo fondamentale nella mia crescita. E ho avuto la fortuna di poter tornare a casa, di poter tornare nel settore giovanile Bari. Capite? Avevo deciso di chiudere la pagina più importante della mia vita per iniziare a scriverne un’altra. E l’avrei fatto lì, dove tutto era iniziato. Lì dove era partita la mia carriera da calciatore stava per nascere il mio nuovo viaggio. E l’avrei fatto in quella che è casa, semplicemente casa.
“Sei stato l’allenatore che più ci ha capiti e capace di entrare nelle nostre teste”. Di questi primi anni mi porto dentro queste parole di un mio ragazzo. È stato un riconoscimento importante. Tengo molto al rapporto con i miei giocatori, al riuscire a creare un rapporto con loro. So che ognuno di loro è diverso. La mia missione è valorizzare questa diversità e pormi in ascolto e in aiuto. Come allenatore e anche come insegnante nelle scuole in cui lavoro. La mia esperienza mi ha dato tanto. Sono una persona nuova, più matura e consapevole. E devo dire grazie alle difficoltà vissute. Vedete, quando tutto va bene e sei continuamente impegnato non ti poni molte domande. Se ti fermi, la mente inizia a viaggiare.
E così è stato quando mi sono infortunato. L’unica cosa che potevo fare era stare seduto sul divano solo con me stesso. E la mia testa continuava ad andare. I pensieri si accumulavano e legavano tra di loro in modo incessante. “Cosa posso fare? Che ne sarà del mio futuro?”. Poi percepisci il giudizio esterno, il bisogno di rispondere alle aspettative. Si vive con il peso del dover dimostrare. Si conosce l’ansia. Rischi di precipitare in un tunnel mentale infinito. E ho avuto la fortuna di avere al mio fianco il mio cane. Mi ha donato spensieratezza e amore incondizionato. Mi ha aiutato a restare in piedi e crescere. A cambiare è la consapevolezza. La consapevolezza di chi si è, di ciò che si vuole, del mondo che ci circonda. Si è costretti a fare i conti con sé stessi e ci si conosce. Ci si conosce un po’ di più. Questa è la mia storia. Sarebbe potuta andare diversamente? Può essere. Ma sono orgoglioso di chi sono stato e di chi sono. Ho accettato le mie fragilità e sono rimasto in piedi. Proprio come mi aveva insegnato nonno.
Le parole di Edoardo Bove in occasione della presentazione della legge sul primo soccorso che…
Benjamin Šeško resterà fuori almeno per un mese a causa di un infortunio Durante la…
Il mondo del calcio ha presenziato all'evento organizzato da Mondadori per la presentazione del nuovo…
Dusan Vlahovic ha svolto alcuni esami al J Medical dopo il sovraccarico all'adduttore accusato in…
L'attaccante del Como Assane Diao ha riportato una lesione di basso grado al bicipite femorale…
Le parole del CT del Brasile, Carlo Ancelotti, in conferenza stampa prima della partita contro…