Interviste e Storie

“Nessuno credeva in lui”, Dumfries raccontato dal suo primo allenatore

Dumfries con Peter van der Pennen, il suo primo allenatore

Alle porte della cittadina olandese di Barendrecht un ragazzo calcia da solo in un campo. Una, due, cento volte. Riprova in continuazione. Vuole diventare un calciatore professionistico, anche se quando l’ha detto i compagni sono scoppiati a ridere.

Non ci resta male, è uno stimolo in più. Sa di potercela fare. Deve dimostrarlo a quei ragazzi, ai club che lo hanno respinto. Deve dimostrarlo a sé stesso, la persona da cui pretende di più. Anni dopo è in finale di Champions League ed è stato tra i trascinatori della squadra. Anni dopo Denzel Dumfries è conosciuto da tutti.

L’ha sempre detto, sarebbe diventato un calciatore. Ha avuto coraggio nel manifestare il suo sogno davanti a tutti. Quello che ha raggiunto è l’immagine di ciò che lo caratterizza da sempre: determinazione, fame, applicazione”. La voce è quella di Peter van der Pennen, il suo primo allenatore.

Tutto ha inizio sui campo del VV Smitshoek. Una realtà dilettantistica, lontano dai grandi e storici club olandesi. Ajax, PSV, Feyenoord: negli anni nessuno lo cerca. “Penso fosse dovuto al fatto che dal punto di vista tecnico non eccelleva. E anche fisicamente doveva ancora crescere. Non si è mai scoraggiato, anzi era motivato a lavorare ancora di più”.

Quel ragazzo non ha mollato, neanche dopo essere stato scartato dopo una sola stagione: “Lo Spartaan 20 ce lo rimandò indietro”. Lavoro e abnegazione: “Credeva davvero nel suo sogno ed era disposto a qualsiasi cosa per raggiungerlo. Questo ha fatto la differenza”. Sempre con viso serio che abbiamo imparato a conoscere: “Era così anche da piccolo. Sia durante gli allenamenti che durante le partite era sempre molto concentrato, voleva sempre dare il massimo. Pensava solo al pallone. Appena usciva da scuola iniziava a giocare. Al campo o in strada, era indifferente”. O a Monaco di Baviera. L’aveva detto, sarebbe diventato un calciatore.

Pugni al terreno e le pareti della soffitta

Era un ragazzo che pretendeva tanto da sé stesso. Ho ancora in mente una scena”, continua Peter. Denzel commette un errore e perde il pallone: “Si inginocchia per terra prendendo a pugni il terreno per la frustrazione”. L’ossessione del dover migliorare, la forza di riprovarci sempre: “Non si accontentava mai. Quando sbagliava un esercizio, voleva sempre ripeterlo finché non gli riusciva. Era impressionante”.

E non accettava le sostituzioni: “Quando accadeva usciva con il volto arrabbiato e si sedeva a lato. Suo padre mi ha raccontato che Denzel sulle pareti della soffitta scriveva ogni settimana la sua formazione ideale”. Appunti di un viaggio da scrivere. Un pallone portato sempre con sé: “Mi hanno raccontato i suoi genitori che dopo aver visto una scena nel suo film preferito ‘In Orange’ in cui il bambino dormiva con la testa sul pallone invece che sul cuscino, iniziò a fare lo stesso“.

Denzel Dumfries, difensore Inter (imago)

Il genero perfetto e le mille domande

L’attenzione e la determinazione rendono Dumfries diverso dagli altri. Durante le spiegazioni tattiche è sempre il più concentrato. Tante le chiacchierate con Peter: “I compagni correvano in doccia, lui mi riempiva di domande per capire come crescere. Un ragazzo molto serio. In un discorso prepartita l’avevo definito ‘il genero perfetto’. Era fantastico lavorare insieme”.

Un rapporto andato avanti negli anni. L’invito per la 50esima con la maglia della Nazionale olandese e per Inter-Feyenoord dello scorso marzo le immagini più belle: “Momenti emozionanti. Incredibile pensare che ho avuto la fortuna di allenarlo e vedere il percorso che ha fatto”. E ora c’è una finale di Champions da giocare. La forza dei sogni.

Nicolò Franceschin

Nato nel 1997 tra Milano, Como e Lecco. Laureato in Giurisprudenza, ma ai codici ho preferito una penna. Cresciuto con Maradona (il calcio), ma anche Ronaldinho e Sneijder. Il fascino del numero 10. Credo nella forza delle parole. Verità e narrazione. In giro in macchina per stadi, campi e strade alla ricerca di nuovi colori da scrivere, perché ognuno ha una sua sfumatura. Le note del telefono che si riempiono di storie, alcune il cui finale è ancora tutto da scrivere. Una di queste è la mia. Raccontare emozioni e dare voce a chi non ce l’ha.

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