Quando giocava dicevano di lui che si nascondeva per tutta la partita per riapparire al momento giusto, toccare un pallone – quasi sempre colpendolo al volo – e fare gol. Una specie di Black Mamba del calcio: un solo morso, ma letale. Di morsi, anzi di gol, David Trezeguet ne ha fatti tanti. Solo con la Juventus 171: nessuno straniero in maglia bianconera più di lui. Lassù in cima, scritto nella storia, una storia che racconta coppe prestigiose e delusioni amare, cadute e risalite, sia a Torino che con la Francia. Ora però è tempo di scrivere un nuovo capitolo, di questa storia: David Trezeguet, francese d’Argentina, ha smesso di giocare a calcio nel 2014 e ci ha messo un po’ per capire cosa volesse fare “da grande”. Nel frattempo è stato per sei anni Brand Ambassador della Juventus – il contratto è in scadenza – ha girato il mondo e durante questo peregrinare ha capito: la sua Itaca è ancora il campo. “Ho iniziato ad avere voglia di tornare lì”: non nella veste di allenatore, ma di direttore sportivo. Ha frequentato prima un corso presso la Conmebol, poi ha conseguito una laurea riconosciuta dalla Federazione spagnola all’Universidad Rey Juan Carlos: insomma, ha studiato, perché “in altri tempi si poteva fare a meno della preparazione, ora non più: l’occhio del calciatore è più sviluppato, ma non basta”. In questa lunga intervista a gianlucadimarzio.com, David Trezeguet ci ha spiegato che dirigente sarà. Ma anche che calciatore è stato.
La voglia di iniziare questa nuova avventura si percepisce dall’entusiasmo con cui Trezeguet ne parla: “È arrivato il momento di un cambiamento. Aspetto una squadra che mi dia fiducia e che creda in me: io non vedo l’ora”. Avrà a che fare, però, con un calcio diverso ed evoluto rispetto a quello che ha conosciuto da giocatore, ma anche sfiancato dalla pandemia: “I primi cambiamenti iniziavano ad avvenire già nella mia generazione. Ma ora è tutto nuovo e i primi ad essere cambiati sono i calciatori, di conseguenza anche un dirigente deve adattarsi e lavorare diversamente”. Sì, ma come? “Dialogo, gestione, preparazione su tutti i fronti: economico, legale, burocratico. Il direttore sportivo è la figura che sta in mezzo a giocatori, allenatore e club. Gli ex-giocatori partono con un vantaggio, perché tra chi è stato in campo in passato e i giocatori si crea un feeling unico. Ma bisogna trovare l’equilibrio giusto”. Per sei anni ha studiato dalla dirigenza più vincente degli ultimi tempi: “Ho visto la Juventus dominare, applicando il metodo che ne ha fatto la storia. Ma credo nella diversificazione: bisogna aprirsi per capire dove si è, l’ambiente, gli obiettivi. Mi interessa questo e non mi precludo nessuna esperienza: voglio muovermi, imparare”. Ma ci sarebbe, per il Trezeguet calciatore, posto nella squadra costruita dal Trezeguet dirigente? “Sì, i giocatori che fanno la differenza sono sempre i benvenuti. Bisogna sempre partire con l’idea di voler lasciare il segno”.
Del Piero-Trezeguet, Trezeguet-Del Piero
Un segno indelebile, Trezeguet, l’ha lasciato in coppia con Alessandro Del Piero. Del Piero-Trezeguet, una desinenza da 461 gol con la Juventus, una coppia funzionale e perfetta: l’uno completava l’altro, come dimostrano alcune reti iconiche. Una su tutte, quella realizzata dal francese a San Siro l’8 maggio 2005, di testa contro il Milan, su assist in rovesciata di Pinturicchio. “Alessandro per me è stato un punto di riferimento – dice David – e aver condiviso con lui dieci anni di Juve è stato fantastico. È stato un professionista e un giocatore unico: in campo sapevamo cosa fare per esaltarci e ci bastava poco per capirlo. Ma la nostra intesa nasceva fuori dal campo: momenti di semplice condivisione, come ritrovarsi a guardare una partita. Quando un gruppo di giocatori sta bene umanamente, in campo tutto diventa più semplice e la squadra raggiunge gli obiettivi”. Del Piero sta frequentando il corso da allenatore, Trezeguet sarà un dirigente: si potrà ricomporre, un giorno, la coppia Del Piero-Trezeguet ancora a Torino? “Perché no! Anzi, lo spero. Alex ha dimostrato le sue capacità e si sta preparando. E il suo legame verso la Juve non lo dimenticherà mai nessuno”.
La Juve di oggi: la Juve di Pirlo?
Per una Juve che è stata e che potrà essere, ce n’è una che… è. E che non sta vivendo il suo momento migliore. Ma cosa non ha funzionato, quest’anno, secondo Trezeguet? “Premetto che dopo nove anni di vittorie, sbagliare un campionato è umano. Alla Juve vedo un gruppo molto unito, ma sono mancate continuità e identità: abbiamo visto sprazzi interessanti, ma seguiti da cali fisici, mentali e tecnici. Sono cambiati un po’ di giocatori e l’allenatore, quindi questo è nell’ordine delle cose. Ma il campionato è quasi finito e si vede che qualcosa manca”. Dovrà trovarlo con Pirlo, questo qualcosa? “Io dico di sì. Per dare un senso a questa stagione, per dare un’idea di continuità. Quest’anno la Juve ha trovato nell’Inter una squadra più cattiva, con due attaccanti che segnano sempre. Il solo Ronaldo, invece, non può bastare. E alla Juve è mancato un certo Dybala”.
Nello stesso giorno in cui guardava la Juve battere il Napoli, Trezeguet si è gustato anche il recitàl del connazionale Mbappé, a Monaco di Baviera: “Kylian sta guidando il calcio verso un’altra dimensione: dinamica, fluida. Hai visto Bayern-PSG? Non si sono fermati un attimo. Nessuna gestione, nessun calcolo: giocare. In Europa va così e Spagna, Germania o Francia l’hanno capito già da un po’. In Italia lo vedo poco nei club, tanto in Nazionale: Mancini è stato all’estero e si vede: gli azzurri hanno un’identità quando attaccano, giocano con sicurezza e agli Europei possono arrivare lontano. Anche se la favorita resta la Francia, che può iniziare un ciclo come quello della Spagna: continua a sfornare giovani, grazie a un lavoro iniziato tempo fa”. E a proposito di giovani, saranno uno dei punti focali del Trezeguet dirigente: “La pandemia ha avuto un impatto economico negativo sui club e li spingerà a investire per forza sui settori giovanili, per fabbricare in casa i campioni. È anche l’occasione per inculcare quella mentalità di cui parlavo prima già a partire dai settori giovanili, così da permettere subito ai ragazzi di dimostrare il loro valore: se uno è bravo, lo è a 16, 17 e 18 anni e deve giocare. Sì, in prima squadra e se possibile in campionati competitivi, non in categorie inferiori per fare esperienza o diventare più ‘cattivo’”.
Hai un nemico in me
Estate 2000. Trezeguet ha appena inflitto all’Italia una delle delusioni più cocenti della sua storia, il golden goal nella finale degli Europei a Rotterdam. Ma viene ingaggiato dalla Juventus: il nemico, in casa. “Non è stato facile. Anche per i tifosi della Juve ero un personaggio sgradito, non mi perdonavano nulla. E davanti a me avevo Del Piero e Inzaghi, che il popolo bianconero amava. Ma sono riuscito a emergere e poi impormi. Una situazione simile l’ho vissuta anche nel 2006: tornavo dopo aver sbagliato un rigore in finale dei Mondiali, ritrovavo una Juventus in B a -17. Molti si sarebbero lasciati andare o sarebbero andati via. E invece… i tifosi della Juventus mi vogliono ancora bene, forse anche più di quanto ne vogliano ai giocatori di oggi”.
Henry, i social e la gestione del calciatore
Un dirigente moderno è quello che sa calarsi in una realtà nuova, in un calcio in cui i protagonisti sono più esposti e allo stesso tempo hanno molti più mezzi per comunicare. Recentemente, un ex-calciatore – oggi allenatore – che con Trezeguet ha giocato ed è cresciuto, Thierry Henry, ha voluto compiere un gesto forte contro gli odiatori da tastiera. Ha cancellato tutti i suoi profili virtuali, per il troppo odio vomitato sui social: “Io e Thierry abbiamo vissuto un’epoca in cui si provava ancora a nascondere il proprio mondo, la propria quotidianità. Oggi invece siamo arrivati a far vedere tutto. Ma più fai vedere, più la gente vuole vedere. Capisco benissimo il gesto di Henry, ma temo che la gente non cambierà. Bisognerebbe educare, fare un lavoro a livello culturale. Perché domani tutti si saranno dimenticati che Henry si è cancellato dai social. E le società non possono trascurare questo aspetto comunicativo, ma dotarsi di professionisti dedicati”.
Parlando con Trezeguet, l’idea della centralità del direttore sportivo nelle sorti di una squadra è quella che si fa largo con più forza: “Deve dare l’impronta”, dice. Da Rouen a Torino, fino a Buenos Aires e Pune, passando per tutti gli stadi in cui ha fatto gol. Il dolce paradosso di Trezeguet: ha capito qual è la sua Itaca, ma dovrà viaggiare per trovarla, raggiungerla e iniziare a lasciare la sua impronta. Ha però una voglia matta di farlo e se avrà la stessa capacità di trovarsi al posto giusto che aveva in campo, sbucando dal nulla, toccando un pallone – quasi sempre al volo – e facendo gol, non dovrebbe passare molto tempo prima che possa trovare la squadra che, proprio come Penelope, lo sta aspettando.
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