Filip Stankovic Venezia - Imago
Responsabilità.
Essere portiere è responsabilità. È essere solo, un ruolo a sé. È essere la figura di cui i compagni si fidano guardandosi alle spalle. È essere sicurezza e trasmettere sicurezza, in qualsiasi situazione. È accettare il rischio ed è coraggio. Ed è ciò che amo essere. È il motivo che mi ha fatto scegliere questo ruolo. Per costruirmi tutto. E poterlo fare con le mie mani.
Perché alla fine passa tutto da loro. Ed è bello sentire tra le mani il mio destino. Anche se, a dire la verità, non ho iniziato a usarle subito. Sì, perché all’inizio non facevo il portiere. In campo correvo dietro al pallone, un po’ come nei pomeriggi nel giardino del nostro condominio con i miei genitori e i miei fratelli. Tutto è cambiato grazie a una vacanza in Sardegna. Mio fratello Stefan faceva il portiere, io giocavo ancora fuori. “Questa volta facciamo cambio”. Lì è nata la mia passione per la porta. Non ci sono più uscito. Lo sentivo, quello era il mio posto nel mondo. Quella sarebbe diventata la mia casa e compagna.
Il brivido della parata, l’essere l’unico a poter utilizzare anche le mani, il senso di responsabilità. Un senso che mi ha insegnato mio padre. Per tutti è Dejan Stankovic, per me è semplicemente… papà. Certo, il cognome che porto è importante e pesante. Lo è da sempre. Come quella volta che avevo 9 anni. Stavo giocando una partita, all’improvviso dietro la rete appare un genitore. “Sei un raccomandato, sei qui per tuo padre”. “Ma lui, un adulto, sta insultando me che sono solo un bambino. Com’è possibile?”. Ricordo di averlo guardato per un attimo. Ma sapevo di essere più forte di lui e delle sue parole: contava chi ero e chi volevo diventare. Dovevo diventare un calciatore, volevo diventare un calciatore.
“È il figlio di”. Questo velo di dubbi e cattiveria nei miei confronti mi ha accompagnato per anni. Ma vedete, non è stato un problema. Mi ha dato forza e voglia. Voglia di dimostrare che quel genitore e chiunque la pensasse così si sbagliava. Mi ha spinto ad andare oltre. Oltre il pregiudizio, oltre le parole e gli sguardi. Andare oltre per essere altro. Altro del solo “figlio di”. Io ero e sono forte. Io sono qui perché me lo sono conquistato e costruito. Con il sacrificio e il lavoro. Con le mie mani. Perché, alla fine, passa sempre tutto da loro.
La famiglia per me è tutto. Mi ha permesso di essere l’uomo che sono. Ho un legame unico con i miei fratelli, sono gli unici veri amici che ho. Siamo tutti competitivi. Ci sfidavamo in ogni cosa: calcio, basket, tennis e tanto altro Io e Stefan contro Aleksandar e papà. Chi vinceva? Dipende, ma spesso loro. Eravamo sempre davanti, poi alla fine la vincevano sempre loro. Insomma, quando nostro padre decideva di impegnarsi. Ho imparato tanto da lui. Ho imparato ad apprezzare il senso del lavoro e della fatica. Ho compreso l’importanza del sacrificio e della dedizione quotidiana. Sono fortunato ad averlo come padre.
E poi c’è l’altra famiglia, quella nerazzurra. Per me l’Inter è casa. Ci sono entrato quando ero solo un bambino. Ho passato momenti bellissimi con loro che non dimenticherò mai. Come le volte che apriva la porta della nostra camera: “Oggi non andate a scuola, venite con me alla Pinetina”. Erano le mattine più belle. L’Inter aveva vinto e noi saremmo andati lì, in mezzo ai compagni di papà. Mi mettevo i guanti di Julio Cesar ed ero pronto a partire. Io e i miei fratelli stavamo lì ad ammirarli. Quanti ricordi… I passaggi con Ibra e Milito, le parole di Maicon, una partitella tra di noi sotto la pioggia con Mourinho appoggiato alla panchina a osservarci. O i consigli e le cene con Julio. Istantanee che custodisco con cura in me. L’Inter è e sarà sempre la mia casa.
Si sa, prima o poi la casa bisogna lasciarla e provare a camminare da soli. Per me l’esperienza al Volendam in Olanda è stato questo. Un anno che mi ha reso uomo. La prima volta tra i grandi, la prima volta lontano dall’Inter e dalla famiglia, la prima volta da solo. Ho smesso di ragionare come un ragazzo, dovevo diventare grande.
Così come a Genova con la Samp, un’altra stagione cruciale per me. Sono partito male. Alla prima in casa contro il Pisa sbaglio e prendiamo gol. In quella successiva contro il Venezia altro errore e altro gol. Ho sofferto. Ho sofferto tanto. Ed eravamo anche davanti ai nostri tifosi. Giorni e giorni in cui ho ripensato a quei minuti. Non ci stavo bene. Poi è scattato qualcosa in me. Dovevo essere più forte di quegli errori, dimostrare il mio valore. A me stesso, agli altri. E così è stato. Ero cresciuto.
Affrontare l’incertezza di qualcosa che non hai mai vissuto fa paura. Ma è anche nelle pieghe di quell’incertezza che ti conosci. Ti conosci un po’ di più. Fino allo scorso anno non avevo mai avuto un infortunio particolarmente grave. Era il momento più bello della mia vita. Tutto stava andando per il meglio. Avevo realizzato il mio sogno di giocare in Serie A. E stavo anche giocando bene. I miei unici pensieri erano la parata o la partita successiva. Poi quel giorno a Udine tutto si è fermato. Rinvio il pallone, sento qualcosa di strano, non mi era mai successo. Un dolore al ginocchio. Prendo a pugni il terreno, mi fa male. È stato uno shock. Sono uscito e tornato in spogliatoio. “Non ho niente, la prossima con la Roma la voglio giocare”, dicevo al telefono alla mia famiglia. Però avevo paura. Paura che potesse essere qualcosa di grave. Il giorno dopo ho fatto la risonanza: rottura parziale del tendine.
Non è stato semplice. Non ero abituato a stare lontano dal calcio. Sei in casa, immobile. Gli altri vanno avanti, tu intanto sei fermo. Ma non sono mai stato abituato a mollare e ad arrendermi. E non l’ho fatto neanche in quel momento. In quei tre mesi non c’è stato un giorno in cui ho riposato. Ho ordinato a casa delle luci per migliorare la mia reazione, un oggetto che lanciava le palline e io le paravo. Ero presente con la testa, mi inventavo sempre qualcosa da fare. Avevo già davanti a me l’obiettivo di tornare.
Cara Venezia, ti scrivo. Ricordo quell’estate di due anni fa quando mi hai cercato. Ci ho messo poco a capire che il progetto che mi aveva presentato il direttore Antonelli fosse quello giusto per me. E sei diventata più di una semplice squadra o città. Venezia, tu mi hai accolto, senza guardarmi o giudicarmi per il cognome che porto. Mi hai abbracciato senza pregiudizi e dandomi l’opportunità di essere me stesso e dimostrare le mie qualità. Mi hai donato quella serenità che a ogni giovane portiere serve. Mi hai dato tranquillità. Mi ha aiutato a crescere, a costruirmi una consapevolezza in me diversa, più matura. Hai creduto in me.
E con te ho realizzato il sogno di giocare in Serie A e di giocare contro la mia Inter a San Siro. Lo stadio in cui ero sempre andato da quando avevo 2 anni per vedere papà giocare. La squadra che mi aveva permesso di iniziare a costruire il mio percorso. La casa in cui ero cresciuto. E poi con te ho vissuto anche l’emozione di parare il rigore a Lukaku, ricordo ancora l’urlo fatto. Eravamo io e lui e basta. Ero riuscito a fermarlo. L’avevo fatto per la mia squadra.
Riguardandomi indietro rivedo quel bambino che giocava con i suoi fratelli sotto casa. Gli direi che diventerà un uomo. E che nella vita incontrerà problemi e difficoltà, ma conta come li si affronta. L’importante è continuare a testa alta e con un sorriso sincero sul volto, lavorando per quella passione che da sempre vive in lui. E magari un giorno arriverà a realizzare quel sogno: vincere la Champions con mio fratello Aleksandar e papà in panchina.
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