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Son e la Nazionale coreana, storia di un rapporto mai semplice

Son, in inglese, non è altro che “figlio”. Il figlio inglese, almeno nel caso di Heung-Min, che viene da lontano: dalla Corea Del Sud, madre apprensiva ma talvolta dura. E al richiamo materno non si può certo voltare le spalle e rinunciare. Al cuor non si comanda.

Ed ecco che il talento del Tottenham, e non certo in una sola occasione, ha dovuto rispondere presente alla chiamata della sua Nazionale, con qualche remora. Il numero 7 degli Spurs, infatti, ha disputato ieri la sua ultima partita a Wembley a fianco di Harry Kane e compagni, prima di lasciare Londra e volare negli Emirati Arabi, sede della Coppa d’Asia. Dove la sua Nazionale vuole, fortemente, essere protagonista assoluta.

Per questo obiettivo, il figliol prodigo dovrà rinunciare a giocare in Premier in uno dei mesi più decisivi per la stagione, come precedentemente accaduto anche a tanti calciatori impegnati in Coppa d’Africa, ad esempio, nelle scorse stagioni. Potenzialmente, Son potrebbe fermarsi al seguito della sua nazionale fino al 1 Febbraio, giorno della finale della Coppa d’Asia: un mix di concentrazione e voglia da una parte, tentando di sollevare un nuovo trofeo; una sensazione di dispiacere dall’altra, non potendo contribuire al cammino verso un posto in Champions cercato dalla sua squadra.

Non è certo la prima volta che la Nazionale coreana entra quasi prepotentemente nella vita di Son: un rapporto di amore e odio al limite del morboso che può essere riassunto in diversi capitoli nel corso degli anni. Già nel 2011, quando il giovane coreano era entrato da poco nel giro della Nazionale, le sue presenze erano state oggetto di discussione e divergenze di vedute: il padre di Son, infatti, aveva cortesemente richiesto al ct Cho Kwang-rae di non chiamare l’allora diciannovenne in nazionale nell’immediato futuro, in modo da permettergli una crescita più lenta e con meno pressioni. Scenario mai concretizzatosi di fronte a una crescita costante e a qualità sempre più irrinunciabili, per la Nazionale coreana, inevitabilmente ritrovatasi a constatare potenzialità e talento di quello che sarebbe diventato il capitano e il giocatore asiatico più pagato ad oggi.

Nel Gennaio 2015, invece, il rapporto di forza tra club e Nazionale nel contendersi Son per la Coppa d’Asia era stato inizialmente vinto dal Bayer Leverkusen, squadra che deteneva il suo cartellino e che non lo lasciò partire alla volta dell’Australia: torneo non organizzato dalla FIFA come motivazione avanzata e società autoconsideratasi non tenuta a concedere alla Corea del Sud il calciatore, impiegandolo costantemente in Bundesliga. Braccio di ferro sbloccatosi qualche giorno più tardi, in favore della Nazionale, e Son convocato a partire dai quarti di finale: una doppietta contro l’Uzbekistan per centrare la semifinale, una grande prestazione per portare i suoi in finale. Prima di arrendersi di misura (2-1), nell’ultimo atto della competizione, all’Australia.

Più recentemente, infine, tutti ricordano le lacrime del giocatore ai Mondiali di Russia, con la sua Corea del Sud eliminata nella fase a gironi ad opera del Messico ed accolta da un lancio di uova dei tifosi al rientro a Seul. Un pianto colmo d’ansia e di paura per il rischio di dover abbandonare il mondo del calcio, svolgendo (come previsto dalla legge) il servizio militare nel suo paese natale: incredibile storia capace di fare il giro del mondo e toccare il cuore di molti, che decisero di tifare per la Corea del Sud nella finale dei giochi asiatici di Giacarta. La vittoria sul Giappone, oltre a consegnare la gloria alla Nazionale, aveva infatti evitato a Son il servizio militare obbligatorio pre 28esimo compleanno, che avrebbe distrutto la carriera del ragazzo.

Tappe di un rapporto, insomma, spesso e volentieri complesso, intriso di affetto ed emozioni forti. Odi et amo. Da figlio, nonché Son, di una patria cui rispondere alle chiamate non è mai stato sinora semplice.

Riccardo Despali

Redazione

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