Nel film “The Royal Tenenbaums”, diretto da Wes Anderson e uscito nel 2001, uno dei protagonisti – Richie – è un ex talentuoso tennista che non molto tempo prima rispetto ai fatti narrati, si ritira nel pieno della sua carriera: apparentemente senza motivo, in seguito a un improvviso meltdown, un crollo mentale che durante una partita lo blocca. Richie a un certo punto si siede sul prato di Wimbledon, smette di giocare e non ricomincerà più.
Questo è solo un film, ma la realtà – in questo caso le Olimpiadi di Tokyo – ci restituiscono una dinamica simile: quella della pluri-medagliata ginnasta americana Simone Biles, che dopo un esercizio mal eseguito si è ritirata dalla finale all-around a squadre e poche ore dopo ha annunciato che non avrebbe preso parte nemmeno a quella individuale. Un infortunio, la primissima versione. E invece no: un meltdown anche per lei, i demoni fino a quel momento rinchiusi in un cassetto della mente che riescono a trovare la chiave, uscire e invaderla, “il peso del mondo sulle spalle”. Poi, anche l’ufficialità, con un comunicato della federazione, e quell’espressione “liberata” da silenzi e tabù: salute mentale. “Simone deve concentrarsi sulla sua salute mentale e noi sosteniamo la sua decisione con tutto il cuore”.
Sport e salute mentale. Un tema che, sempre più, sta emergendo: se da un lato sembrano aumentare le pressioni – insieme agli impegni, sempre più compressi – ai quali gli atleti sono sottoposti, dall’altro gli stessi atleti sembrano più disposti ad aprirsi e a smontare l’idea di imperturbabilità su cui sembrano fondarsi molte carriere. È così, naturalmente, anche per il calcio. Dove probabilmente, per una questione culturale (si pensi al tema dell’omosessualità, quasi innominabile), si fa più fatica a parlarne. Eppure i casi – anche clamorosi – non mancano: ne avevamo parlato qui, ma continuano ad affiorare storie. Raccontarle forse può contribuire a normalizzare la discussione, partendo dal presupposto che alla forza di un calciatore (o di un atleta in generale) che riesce a gestire la pressione, non andrebbe contrapposto il concetto di fragilità, la fragilità di chi invece ha bisogno di fermarsi. Per un po’ o per sempre.
Per sempre, come Marvin Sordell. Vi dice qualcosa? Probabilmente no. È un ex promessa del calcio inglese, che dopo una carriera forse al di sotto delle aspettative – ma durante la quale ha giocato con Watford, Bolton, Charlton e ha disputato le Olimpiadi di Londra 2012 – si è ritirato a 29 anni. Perché non stava bene, perché “non sarebbe stato felice”, perché si è sentito sopraffatto da quella che ha definito un’industria. Senza arrivare a questo estremo, recentemente anche Alvaro Morata ha affrontato l’argomento, confessando di aver avuto problemi di salute mentale durante l’esperienza al Chelsea. “La testa, quando non funziona bene, va allenata, altrimenti ogni giocatore rischia di diventare nemico di se stesso”. Specialmente se, come la disavventura di Morata agli Europei ricorda, c’è chi non si fa scrupoli e al primo errore è pronto a insultare sui social, uno strumento senza filtri. A tal proposito, nei mesi scorsi, avevano fortemente preso posizione i club inglesi, “spegnendo” simbolicamente i loro profili per un giorno, per lanciare un messaggio forte contro gli abusi sul web, che insieme alle aspettative, al successo raggiunto troppo presto, alla pressione, agli standard richiesti dai tifosi e dai media, rappresentano un’altra sfaccettatura del problema.
Un problema che può investire anche i più grandi. Iniesta e Buffon, per citare due grandissimi, o Romelu Lukaku. Lo ha confessato lui stesso, nel corso di un question&answer su Twitter un mese fa: “Ho sofferto di problemi di salute mentale durante il lockdown, – gli scrive un tifoso – da giocatore come gestisci questa cosa, Big Rom?”. E l’attaccante belga risponde: “Ho avuto dei problemi simili nel 2018 (giocava nel Manchester United, ndr), ve ne parlerò molto molto presto”. In attesa che lo faccia Romelu, quest’anno lo ha fatto un altro calciatore, che non ha certamente il suo peso mediatico e la sua fama: Victor Palsson, centrocampista islandese del Darmstadt: “Nello sport bisogna sempre essere forti, sapere andare avanti. Ma dovrebbe essere accettato anche avere problemi di salute mentale e chiedere aiuto per questo”. Lui, dovendo attraversare un periodo molto buio, lo ha fatto. Perché in questi casi, “siamo tutti sullo stesso piano”, sostiene lo psicologo dello sport Thorsten Leber.
Già, tutti possono incappare in un meltdown. E non tutti sono Djokovic, che interrogato sul ritiro di Biles a Tokyo ha definito la pressione “un privilegio da imparare a gestire, senza cui non esiste lo sport professionistico”. Magari Simon Biles imparerà a farlo, magari sarà proprio smettere di doverlo fare che le farà sconfiggere i suoi demoni; magari Naomi Osaka, si sentirà nuovamente libera di disertare una conferenza stampa e ritirarsi dal Roland Garros e Wimbledon, per poi tornarci senza dover soffrire a ogni battuta; magari le parole di Alvaro Morata o Romelu Lukaku raggiungeranno chi non pensa di potercela fare, convincendolo a chiedere un supporto. E anche un meltdown non sarà associato necessariamente a debolezza e a fragilità, ma al coraggio, per averne parlato e averlo condiviso. Per non averlo nascosto. Nello sport, nel calcio, in ogni contesto.
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