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Sette anni fa ci lasciava il “Vecio”: il ritratto di Enzo Bearzot

Il fumo della pipa di Enzo Bearzot si fece sempre più intenso in quella torrida estate spagnola del 1982. Tra i suoi appunti, scritti qua e là, c’erano mille ipotesi sulle marcature con le quali poter bloccare i fenomeni di Brasile e Argentina. Già, perché l’Italia, dopo un girone iniziale pessimo (zero vittorie) e un passaggio al turno successivo risicato (per un gol in più segnato rispetto al Camerun) si trovò ad essere la vittima designata del secondo girone eliminatorio. Un solo posto per tre squadre: Brasile, la grande favorita; Argentina, campione uscente; e Italia, appunto, vaso di coccio costretto a convivere con quelli di ferro. In patria le speranze riposte sugli azzurri erano davvero poche, inversamente proporzionali alle polemiche per un gioco di certo non brillante. E invece com’è andata a finire è storia nota: Paolo Rossi, difeso a spada tratta dal CT dopo un inizio di competizione a dir poco sotto tono, ha iniziato a segnare a grappoli, giustiziando tutte le principali big di quel leggendario torneo.

La vittoria del gruppo, si disse. Bearzot cementò la squadra, trasformando le critiche al vetriolo in uno sprone eccezionale. E la Coppa del Mondo alzata al cielo di Madrid da Dino Zoff è un’immagine che nessun italiano, anche delle generazioni successive, può togliersi dalla testa. Così come la parata dell’ormai quarantenne capitano sulla linea di porta all’ultimo secondo di Italia-Brasile o la corsa di Tardelli dopo il gol in finale contro la Germania. Tutti frames diventati storia. A scriverla, lui: Enzo Bearzot, che dopo un’onesta carriera da mediano, con 251 partite in Serie A tra Inter e, soprattutto, Torino iniziò ad allenare nelle giovanili del club granata, prima di passare a guidare il Prato in Serie C. Poco dopo l’ingresso nei quadri federali, dai quali non uscirà più. Dal 1969 al 1986, tra Under 23 prima, ruolo di assistente di Valcareggi poi e Commisario Tecnico infine. Qui scriverà tante pagine nel libro del calcio italiano: prima il Mondiale ’78, quello dell’Italia rivelazione, nei giovani, nel gioco e nei risultati; poi il trionfo in Spagna nel 1982; infine le delusioni della mancata qualificazione agli Europei del 1984 e la precoce eliminazione al Mondiale messicano del 1986, dove, si disse, Bearzot avrebbe pagato l’estrema riconoscenza verso il gruppo che lo aveva issato in vetta al mondo quattro anni prima. Ma era fatto così: troppo leale per abbandonare i suoi fedeli scudieri.

Un personaggio a tutto tondo, il “Vecio”, come era soprannominato. Amante della letteratura e della musica, era un fine conoscitore degli infiniti aspetti dell’animo umano. E per questo, dietro la sua apparente corazza di freddezza c’era un uomo estremamente sensibile, pronto ad affrontare con coraggio ogni prova. In campo, da calciatore, era un leone che lottava su ogni pallone: prova inequivocabile era il suo setto nasale rotto, una sorta di segno distintivo che stonava con quel suo sorriso rassicurante e pacato. Enzo Bearzot ci lasciava sette anni fa. “Addio alle armi” di Hemingway era il suo libro preferito, ma in verità il “Vecio” le armi, quelle metaforiche degli insegnamenti che ha lasciato al calcio italiano, non le abbandonerà mai. È nell’olimpo dei grandi e lo sarà per sempre.

Redazione

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