“Vedi, io non penso di essere un maestro. Cerco solo di trasmettere le mie idee e di farlo a modo mio. Bisogna essere sé stessi per dare credibilità a ciò che si pensa”. Ed è nelle trame e nella relazione di questi due concetti, le idee e l’essere sé stessi, che prende forma e si costruisce ogni giorno l’essere allenatore e il vivere di Davide Possanzini. Parlare con l’allenatore del Mantova ed entrare nel suo mondo è un’esperienza che va oltre il solo calcio. E’ diverso. Significa riflessione e apertura mentale, impegno intellettuale e una messa in discussione delle proprie certezze. È “toccare” e conoscere l’uomo, prima ancora del professionista, perché “per me sono importanti le persone”.
Davide Possanzini ha da poco ritirato il “Premio Rosa Camuna” di Regione Lombardia per il suo Mantova. Un riconoscimento per un club che, dopo essere retrocesso in D e poi ripescato, ha conquistato la promozione in B con una rosa rivoluzionata e progettata su due coordinate: uomini e principi. Un’impresa che si inserisce in una storia, quella di Possanzini, in cui ci sono un amore incondizionato per il pallone e un passato da giocatore, gli anni con De Zerbi, l’umanesimo e la filosofia Zen, il “calcio da giardino” e un ruolo da allenatore mosso da divertimento ed entusiasmo.
Una sala e delle poltrone nel Palazzo della Regione, un microfono, un viaggio: nel mondo di Davide Possanzini.
Nella voce e negli occhi vivono ancora la passione genuina e la spontaneità di quel bambino che giocava con gli amici: “In me c’è ancora tanto di quel Davide. Un po’ devo tenerlo nascosto, anche perché i bambini dicono sempre ciò che pensano e non sempre si può fare (sorride ndr). Però l’istinto di quel periodo è presente”. Sentimenti incessanti: “Il divertimento e la voglia sono sempre quelli e spero di trasmetterlo ai miei giocatori. È l’obiettivo che mi prefiggo ogni mattina che mi sveglio”. Ed è lì, tra i passaggi e i dribbling sull’asfalto, che affondano le radici del calcio di Possanzini: “Da piccolo, io e miei amici giocavamo o al parco o, quando c’era troppa gente, nel piazzale sotto al condominio”. La signora dell’appartamento al primo piano che bucava il pallone quando finiva sul suo balcone.
“Giochiamola bassa, la palla giochiamola bassa”. Le parole di Possanzini riecheggiano nell’aria, anni dopo. Dal cemento alla panchina, da un’esigenza a principio cardine di una filosofia: “Siamo figli delle esperienze”.
“Faccio ancora fatica a pensarmi nelle vesti di allenatore. Mi sento un uomo tranquillissimo che vuole fare il proprio lavoro. Ricopri un ruolo e devi farti chiamare mister, ma in realtà mi piacerebbe che mi chiamassero ‘Davide’ e ‘Possa’”. Un messaggio semplice in cui si racchiude la concezione di Davide Possanzini:
“Voglio stare al livello dei miei giocatori, instaurare un rapporto di intimità e condivisione. Un rapporto in cui si possa esprimere per quello che si è”. Senza la paura di compiere errori: “Io credo siano parte integrante del percorso. Nel calcio si sbaglia di continuo”. Crederci e provarci: “Devono continuare a farlo. È la perseveranza che fa crescere. Dai miei giocatori non mi aspetto niente se non il provarci sempre. Se devo rimproverarli per qualcosa è se non fanno qualcosa per paura di sbagliare. Devono avere il coraggio di sbagliare”.
“Non penso di essere un maestro, cerco solo di trasmettere le mie idee”. Invece di maestro, forse, potrebbe essere più adatto il concetto di insegnante. Perché Possanzini, nel suo essere e interpretare il ruolo di allenatore, il segno lo lascia. Significativo, profondo. “Cerco di far percepire e di lasciare la passione e il rispetto smisurato che ho per questo sport e per quelli che sono i miei principi”. Due le coordinate. Da una parte il coraggio di credere nelle proprie idee e avere la coerenza di perseguirle anche nei momenti negativi: “È quello che fa la differenza”. E per farlo è essenziale che vi sia anche l’altra variabile: le persone. “Contano tantissimo. Con profili umani che hanno valori importanti si può costruire tanto. È per questo che ritengo fondamentale creare un rapporto di fiducia con i miei giocatori. Il ds Botturi ha fatto un lavoro straordinario, andando a cercare ragazzi con curiosità e con la voglia di mettersi in gioco”. D’altronde, Possanzini è chiaro: “Io credo negli esseri umani”.
“Faccio questo lavoro per lavorare sulle mie idee e per la passione che ho per questo sport, non per la categoria o per i soldi”. Si torna lì, a quel bambino che giocava sul cemento con gli amici. Nel mezzo anni fatti di crescita, studio e ricerca: “C’è sempre da aggiornarsi. Io guardo tutti gli allenatori. Mi piacciono Xabi Alonso, Guardiola, Gasperini, Klopp, Thiago Motta… Mi interessa vedere le partite e capire in che direzione va il calcio”. Lo studio dello spazio e del tempo: “Due parametri che sono fondamentali”. Una formazione che va oltre il solo calcio: “Amo leggere. Sono passato dai thriller a libri sull’umanesimo e sulla filosofia orientale”. E i segni lasciati dalle esperienze: “Ti indirizzano e ti segnano. Siamo frutto di quello che viviamo”. Esperienze come la guerra in Ucraina, vissuta ai tempi dello Shakhtar: “Ti fa capire la giusta importanza che devi dare alle cose. Ci sono situazioni in cui sei impotente e puoi solo aspettare”.
In Davide Possanzini convivono in modo coerente la semplicità, data dalla sua umiltà e trasparenza, e la complessità, data dalla sua profondità e dalle sue tante sfumature. Nel suo orizzonte non ci sono “sogni precisi”. Anche se sulla partita che desidererebbe giocare con il suo Mantova ha pochi dubbi: “Contro il Real di Ancelotti al Bernabeu. Magari in finale di Champions…”. “Vorrei andare sempre al campo con questo entusiasmo e che non diventasse ‘solo’ un lavoro”. Perchè per lui il calcio “è stato ed è la mia vita. Ho fatto delle rinunce che non posso chiamare sacrifici. Se insegui un sogno non posso essere sacrifici. Il calcio è tutto, passione e amore smisurato. Finché ci sarà questa fiammella accesa continuerò, anche perché non penso di essere capace di fare altro…”.
Essere sempre sé stessi, perché emulare altri sarebbe soltanto una limitazione nella propria crescita. Rimanere fedeli ai propri principi, perché in fondo siamo (anche) le nostre idee e ciò che pensiamo. Se ti chiami Davide Possanzini, ancor di più.
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