Alessandro Plizzari (IMAGO)
“Ale, noi te la portiamo ai rigori, poi ci pensi tu”. Siamo nei supplementari di Pescara-Ternana, ci giochiamo la premiazione in Serie B. Letizia si gira verso di me e mi dice queste parole. Si fida di me. Si fidano di me. Quella frase per me assume un significato profondo. È un po’ l’immagine della mia crescita e del mio percorso. Capirete il perché.
Ci arriveremo, ma torniamo alla partita. L’Adriatico è pieno. All’andata abbiamo vinto 1-0, al ritorno ci ritroviamo in 10 e sotto di un gol. È il minuto 107, Damiani calcia. Io salto per parare il tiro. Intercetto il pallone, ma nel momento in cui atterro il polpaccio mi si indurisce. Un crampo fortissimo. I fisioterapisti chiamano la barella, pensano sia il tendine d’Achille. Non ho mai provato un dolore così. È come se avessi un coltello nella gamba. Non abbiamo cambi, i compagni mi chiedono di restare in campo. E l’intero stadio canta il mio nome. “Plizzari, Plizzari, Plizzari”. Indescrivibile. Non posso uscire. Non lo farei mai. Rimango in campo.
Via, iniziano i rigori. E sfrutto anche il mio problema muscolare. Il polpaccio infortunato è il sinistro. Durante i rigori prima che gli avversari calcino mi tocco il destro, così da incentivarli a tirarli da quella parte. È andata bene. L’adrenalina mi pervade. Mi godo ogni attimo. In questi giorni abbiamo studiato i loro tiratori. Sono d’accordo con Nardini, il nostro preparatore dei portieri, che mi indicherà la parte dove buttarmi. Per il primo si presenta Ferrante. Dalla panchina mi dicono che l’avrebbe aperto. Mi fido. Parata.
Arriviamo al terzo. Davanti c’è Casasola. Seguo l’istinto e mi butto dalla parte opposta di quella consigliata. Parata. Arriviamo a quello di Donnarumma. Non mi rendo conto che possa essere quello decisivo. Parte, lo apre. Intuisco la direzione. Sì, ci sono arrivato. L’ho parata. Ma sento un’altra fitta al polpaccio, alzo le braccia per chiamare i medici. Ma non arrivano solo loro, sono coperto dall’abbraccio di tutti. Allora è tutto vero. Siamo in Serie B. Inizio a piangere. Smetterò solo ore dopo.
Dentro quelle lacrime c’è tanto, tutto. Un pianto liberatorio. Mi passano davanti agli occhi le immagini e le emozioni di questi anni. Le difficoltà e quella sensazione di incertezza e impotenza dei primi anni tra i grandi, il peso delle aspettative, le critiche e la mia rinascita, il percorso con la mental coach e la fiducia ritrovata. Rivedo me stesso. Una vittoria dedicata alla città, al club, alla mia famiglia e a papà che in un momento di bisogno durante i playoff è venuto qui ed è stato con me tutte queste settimane. Una notte che racconta una vita. La mia. La vita di un ragazzo diventato uomo.
È dall’inizio di questa stagione che sentivo qualcosa di diverso. Qualcosa di speciale. Era l’anno giusto. E così è stato. La differenza l’hanno fatta il gruppo e Baldini. Ci ha reso una cosa sola, un’unica famiglia. E l’aveva detto: saremmo andati in Serie B. Vi ricordate gli anni a scuola? Ecco, questi mesi sono stati così. Ma insegnamenti di vita, esperienze continue, non mere nozioni impartite sui banchi. È stato un maestro di valori. Ce ne ha fatto apprezzare e comprendere l’autenticità e l’importanza. Con lui abbiamo capito che per raggiungere un obiettivo non bisogna ricorrere a scorciatoie come le perdite di tempo o l’innervosire l’avversario. Non si deve vivere per il risultato, ma per il percorso e il sacrificio. L’onestà prima di tutto. Ed è per questo che mi hanno ferito le accuse dei giocatori della Ternana che dicevano che avevo finto l’infortunio. Non lo avrei mai fatto.
Ogni cosa detta da Baldini si è realizzata. Ricordo ogni suo racconto. Un esempio? Quello del primo giorno di ritiro, in cui ha utilizzato una tradizione che gli indiani usavano con i nuovi arrivati nelle tribù. Ha dato un bastoncino a capitan Brosco chiedendogli di spezzarlo. Poi gli ha chiesto di fare lo stesso con altri trenta. Un bastoncino per giocatore. Romperli insieme era impossibile. Un’immagine per far comprendere quanto i singoli uniti insieme possano essere forti. Ed è per questo che non voglio essere chiamato eroe. Lo siamo stati tutti. Eroi di una serata unica. Quante immagini mi porto. La notte insonne prima della finale. Gli sguardi tra di noi in campo. I minuti in 10, sotto di un gol e senza difensori centrali. Le due ore per fare a piedi 200 metri per raggiungere il ristorante in città. Volevo regalare una gioia a questa gente e a questo club. Pescara mi ha dato l’opportunità di rinascere come persona e come calciatore. Mi ha dato fiducia quando nessuno mi voleva. Dovevo sdebitarmi. Qui ho potuto scrivere le pagine della mia nuova storia, la mia “seconda vita”.
Già, la mia seconda vita. È iniziata dopo l’operazione alle ginocchia nel 2021. Volevo ripartire e costruire la mia strada, liberandomi da un paragone troppo pesante. Ma un attimo, bisogna fare prima un passo indietro. Tornare in quella strada tra Crema, dove sono nato, e il Vismara, centro di allenamento del Milan. Ci sono entrato da bambino. Ero piccolo quando ho fatto il provino. La mia famiglia mi aveva detto che saremmo andati a Gardaland, mi sono trovato con i guanti e una maglia rossonera. Non l’ho più tolta. È stata la mia casa per anni. Dalle giovanili alla prima squadra. Gigi Ragno la figura che mi ha accompagnato. Un secondo padre. Mi ha consigliato di essere una spugna. E così ho fatto. Ho imparato da tutti. Abbiati, Diego Lopez, Storari, Maignan, Donnarumma. Già, Gigio. Quanto era forte. E quanti viaggi sul pulmino con lui. Metteva sempre le canzoni napoletane.
Ho condiviso parte del mio percorso con lui. Nel 2016 Berlusconi mi ha paragonato a lui: “Plizzari è forte quanto Donnarumma”. Da quel momento la mia vita un po’ è cambiata. Ricordo benissimo quel giorno. È stato un onore e una fortuna essere citato da lui. Al momento, però, non ho capito l’importanza di quella frase. L’ho compresa dopo. Ha creato molte aspettative, a volte non le ho rispettate. Da quel giorno la gente da me ha sempre preteso determinate prestazioni. Ho dovuto convivere con le critiche, anche sui social. Ci sono stato male. Ero giovane. Era tutto più grande di me.
Nel 2017 il Milan mi manda in prestito. Vado alla Ternana in B. Arrivo con entusiasmo e un po’ di incoscienza propria dei giovani. Dopo qualche settimana, però, queste sensazioni mi lasciano. Sono iniziati i primi errori. Critiche e pressioni. E io non sono abituato. Non so cosa fare e come gestire tutto questo. Mi viene il panico. Sono spaventato e non ho più certezze. Dentro di me vive una costante sensazione di insicurezza. Non mi abbandona mai. La testa si riempie di pensieri. Non sono più io. Gioco male, sbaglio. Mi mettono da parte. Non sto bene.
Questo malessere mi segue anche nelle stagioni successive. Prima a Livorno. Un anno negativo, retrocessione e fallimento del club. E poi a Reggio Calabria. Parto titolare. Non sono sicuro di me stesso. Sbaglio e lo faccio in partite decisive. Eccole, le stesse sensazioni di Terni. Non mi lasciano. E vedo i miei compagni. Vedo i loro sguardi. Non si fidano di me. E poi quelle parole che mi lasciano una ferita. Profonda, aperta. “Noi ci stiamo giocando la vita, questo ragazzino non lo capisce”. Scatta qualcosa, non voglio più sentirmi così, devo lavorare su me stesso.
La stagione successiva torno a Milano e decido di operarmi. Ho delle infiammazioni croniche ai tendini rotulei. Mi opero a entrambe contemporaneamente, non voglio perdere tempo. Mi ritrovo senza poter camminare. Lo ricordo quel giorno. Il divano è lo stesso su cui ora sono seduto. Ho paura di non guarire, mio padre deve accompagnarmi ovunque, non sono autonomo. Capisco che qualcosa in me deve cambiare. Ragiono. Ragiono su cosa possa fare. Decido di intraprendere un percorso psicologico. Sono andato da una mental coach. Nei mesi a Lecce, soprattutto dopo il ritorno da titolare contro il Brescia, dentro di me torna a vivere un fuoco. Voglio provare quelle sensazioni ogni settimana. A Pescara poi ho incontrato Nicole, la mia attuale mental coach. Mi segue da tre anni. È stata fondamentale. Con lei ho capito che non esiste un Alessandro giocatore e un Alessandro persona, sono una cosa sola.
Da quando ho iniziato ad ascoltarmi e a prendermi cura della mia salute mentale, la mia vita è cambiata. E mi spiace perché è un tema ancora sottovalutato, stigmatizzato e vissuto con imbarazzo dal mondo del calcio. L’aiuto psicologico troppo spesso viene ancora associato a una debolezza e a una mancanza di credibilità. La fragilità non è qualcosa da condannare. L’accettarla è segno di maturità e un’opportunità di crescita per trovare la migliore versione di sé stessi. Ora sono un uomo diverso. Consapevole di me, di chi sono, di chi sono stato. Ho costruito le mie personali consapevolezze che sono diventate le fondamenta della mia nuova vita. Ma non dimentico il passato. Non cambierei nulla di tutti questi anni. Gli errori, le difficoltà, le delusioni… non rimpiango niente. È solo passando e accettando la sofferenza che ci si conosce nel profondo e si rinasce. Ora capite cosa rappresentano per me Pescara e questa promozione? Cosa hanno significato quelle parole di Letizia? Cosa si nascondeva in quelle lacrime? “Plizzari, Plizzari, Plizzari”. Sento ancora lo stadio, la gente. Ecco, quelle erano lacrime di rinascita. La rinascita di Alessandro Plizzari. La mia rinascita. Disegnata con le mie mani.
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