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Passato, presente e futuro…in Inglese: “Napoli? Pronto a provarci, vi racconto com’è andata. Prima di smettere tornerò al Chievo”

Quanto può essere dura lasciare una famiglia? Parecchio, se sei Roberto Inglese, giochi nel Chievo Verona e il tuo futuro ormai prossimo ti porta verso Napoli. “Qui ci si sente come in famiglia. Ecco perché non è facile far bene qui, devi saperci entrare. Vuol dire essere attaccato alla maglia, capire quanto Campedelli sta male per il Chievo, non far caso se il Bentegodi a volte pare vuoto anche se non lo è, e trovarti la carica dentro. Vuol dire avere le condizioni per far bene, e però coglierle: non è per tutti. Per me lo è stato dopo 5 anni di prestiti, ma ho sempre sentito che avrei fatto bene qui. Per questo, prima di smettere, mi piacerà tornare. Sarà il mio grazie: per avermi fatto crescere, come in famiglia“. Inevitabile già pensare (anche minimamente) al domani, per l’attaccante gialloblu, che intervistato da “La Gazzetta dello Sport” ha svariato su diversi temi tra passato, presente ed esperienze che verranno.

“Mi sono sentito da Serie A a fine torneo scorso: doppia cifra senza giocare sempre. A 25 anni, e zero fretta di saperlo prima. Mai sbroccato per cambiare aria se non giocavo, usavo le energie per migliorare: non lavorare sulle proprie qualità è come non averle. Mamma dice: “Eri così già da piccolo”. La calma e la pazienza che mancavano a Vincenzo e Luigi, i fratelli maggiori, e ne porto i segni. Vede questo taglio sul mento? Mi lanciarono con il passeggino giù per una discesa…”. Un mondo di ricordi che, per Inglese, parte dalla sua Vasto e dal beach soccer: “Praticamente sono nato con i piedi sulla sabbia, a Vasto il beach soccer è una specie di religione, di febbre: squadra in A, scudetto nel 2001, giocano davvero in tanti. A volte me la buttano lì: “Pensa se in squadra avessimo te…”. Per ora posso fare solo lo spettatore d’estate, tanto ci sono partite tutti i giorni. Però magari quando smetterò, perché no?”.

Arrivare al successo (anche) attraverso il dolore, come quello degli infortuni patiti: “Mi commuovo facilmente, non mi vergogno a dirlo, ma per il calcio ho pianto solo una volta: di dolore. A Carpi, quando mi uscì di nuovo la spalla – la prima volta fu a Pescara, poi a Lumezzane mi ruppi il perone – a parte il male cane rividi tutto il film: il recupero, in clinica da solo, un mese di tormento fisico post operazione. Meno male che c’è la mamma: mi diede la forza lei. Prima di giocare bacio un rosario di legno che mi regalò mia nonna e però mi va di pregare un po’ tutte le sere, non solo se ho una gara. E prego soprattutto per ringraziare: anche se le cose vanno così così, non solo bene“. E sui bomber, studiando soprattutto quelli di A: “Amo parlare di Mauro Icardi. Disponibilissimo: il giorno del mio esordio in Serie A forse non sapeva neanche chi ero, gli chiesi la maglia e non fece una piega. E’ nell’armadio, insieme a quelle di Higuain, Dzeko, Immobile: faccio collezione di capocannonieri. Amo anche studiare Icardi, i suoi movimenti, anzitutto: altro che non va incontro alla squadra… Il primo gol di Cagliari, ad esempio: ne fa due pazzeschi, uno dietro l’altro, nella frazione di tempo dell’arrivo della palla. Ha ragione chi dice che è svariati secondi avanti a tutti: è come se sapesse prima dove andare a prendere il pallone“.

Dal gialloblu all’azzurro, sognando di sentire quella musichetta della Champions che per il Napoli passerà dalla trasferta di Rotterdam: “Prima di “studiarla” l’avevo ascoltata un milione di volte: è più forte di me, la sento e alzo il volume della tv, canticchio anche. Una sera l’ho fatto che c’era Elena, la mia fidanzata, e lei: “Cosa sai di questa musica?”. Niente, ovviamente. Adesso, tutto: inno composto da Tony Britten, testo in inglese, francese e tedesco, controcanto nella lingua del paese ospitante quando c’è la finale. Sì che ci penso: sentirla in campo dev’essere un brivido esagerato. Al San Paolo? Tremano i quartieri vicini, no? Diciamo che la prossima settimana tiferò molto Napoli. E Manchester City…Il mio Napoli è iniziato correndo in sede al Chievo alle sette di sera: il mercato chiudeva alle undici, bisognava fare in fretta e in fretta, poi ho anche resettato. Sono stato bravo, dal giorno dopo non ci ho pensato più, tantomeno ai 12 milioni: solo lavoro a mille all’ora, come a Carpi, e credo che Giuntoli un po’ abbia scommesso anche su quello. Ricomincerò a pensarci se ci andrò: ora di scritto c’è solo il prestito al Chievo fino a giugno, nessun riferimento a gennaio. La gente la fa facile: “Lì ti mettono la palla sui piedi, vedrai”. Ma lì devi saperti allenare con loro, e quando in Nazionale l’ho fatto con Insigne ho capito un po’ di cose. Lì devi essere un’orchestra e se stoni tu, stona tutta la musica: stop e passaggio, lo fanno in undici nello stesso modo e per questo ti rubano il tempo. Per questo oggi per vedere “quel” calcio accendi la tv se ci sono Napoli o City. Ci saprò stare? Devo trovarmici, non lo so. Pronto a provarci, e poi prenderò atto: comunque, con orgoglio e serenità”.

Chiusura tra curiosità, Inter e Nazionale: “Il giorno in cui segnai una tripletta al Sassuolo, Di Francesco mi insultò in dialetto: scherzava, per farmi sentire un po’ ingrato. E’ stato il primo a spostarmi nella mischia e a spostarmi in campo, da punta centrale a esterno d’attacco. L’autostima è la chiave del mio percorso: non ho mai dato il massimo il primo anno, decollando sempre al secondo. Anche a Coverciano: arrivato come un pesce fuor d’acqua, mi son sentito un giocatore da Nazionale solo a fine settimana. Ma so che via dal Chievo non potrò aspettare tanto…Inter? La vedo da scudetto: ce l’ho fatta a batterla un anno fa, gara che ho nel cuore come Chievo-Roma dell’anno prima. Ma stavolta giocheranno per il tricolore, avendo un’arma in più che si chiama Spalletti”.

Redazione

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