Nerone, rapper e freestyler italiano
L’intervista di gianlucadimarzio.com a Massimiliano Figlia, in arte Nerone, rapper e freestyler nonché grande tifoso dell’Inter
“Ogni giorno c’è qualche rigore da tirare”. Lo dice citando De Gregori, ma potrebbe essere una sua barra. Perché, nella musica come nel calcio, c’è chi non ha mai cercato scorciatoie: esporsi, rischiare, sbagliare davanti a tutti. E allora l’Inter entra nelle sue canzoni, nelle immagini, nei riferimenti. Raccontarla è un altro modo di raccontarsi. Il pallone come lingua madre, il rap come traduzione.
Poi c’è tutto il resto. C’è il padre, San Siro, le partite viste sul divano e le telefonate al fischio finale. C’è quella prima volta allo stadio, c’è Ronaldo il Fenomeno che sembra arrivare da un altro pianeta. Prima del rapper, prima del freestyler. Prima che Massimiliano Figlia diventi Nerone. C’è un bambino che cresce con una maglia addosso, quasi senza accorgersene.
Il 2010 gli ruba una notte che non torna più, con la finale di Champions saltata per lavoro. Poi anni in cui il calcio si allontana. “Però l’Inter è come una fiamma che ho dentro e che non se ne è mai andata”. E allora tutto torna: le partite viste appena prima di salire sul palco, il Fantacalcio con amici e colleghi, le finali perse, il peso delle occasioni buttate. Fino alla seconda stella, vinta nel derby. “E quella sera la prima chiamata è stata la stessa di sempre: papà ce l’abbiamo fatta“.
Scuola milanese, campione di freestyle. Uno dei più rispettati della scena, una carriera costruita sulla credibilità, barra dopo barra. Più “uno come Cambiasso: toglilo dal campo e te ne accorgi”. E allora facciamo un passo indietro. Rap e calcio insieme, fino ai primi anni Novanta. Fino all’inizio di tutto. A fare da colonna sonora, due sue canzoni che raccontano tutto: “Il cielo è neroblù” e “Tre goal“.
«’91 milanese, sponda neroblù». Non una frase a caso, ma una dichiarazione tratta da Penkiller, il suo ultimo disco. E così all’interno di un progetto in cui si parla di vita, ferite e identità, ecco subito l’Inter. “A quattro anni mio papà mi ha portato per la prima volta a San Siro a vedere Inter-Perugia, finita 1-0 con gol di Zanetti“, esordisce Nerone a gianlucadimarzio.com.
“È una passione di famiglia – prosegue -. Mio papà interista andava allo stadio a vedere Van Basten. Mio zio, milanista, andava a vedere R9. Il primo ricordo appannato che ho è USA 94, la casa dei nonni piena di gente. Poi Francia 98, e lì ho proprio pianto“. E così quel bambino «cresciuto per strada a giocare a pallone / con i piedi nudi, come Ronaldo» cresce tra un dribbling di Álvaro Recoba e un gol di Bobo Vieri.
Fino al 2010, anno dello storico Triplete, quando qualcosa cambia. “Lavoravo in un villaggio turistico in Egitto, quella stagione avevo visto solo il secondo tempo di Barcellona-Inter. La finale di Champions era il giorno prima del mio compleanno e il capo mi propose come regalo un giorno libero oppure la possibilità di vedere la partita“.
Non serve neanche pensare, la risposta è ovvia. “Poco prima del fischio d’inizio, però, mi mandano all’aeroporto a prendere dei turisti“. E così, mentre Zanetti alza la coppa nel cielo di Madrid, un Massimiliano 19enne non è davanti al televisore. “Non ho mai rivisto quella partita se non negli highlights. Da quel giorno mi sono allontanato dal calcio, e anche quando mi concentravo sul rap per farlo diventare il mio lavoro, la passione non era la stessa“.
Per anni, il calcio è una cosa lontana. Quasi una ferita. Max non gioca più alla PlayStation, non cerca i risultati, non discute di moduli o formazioni. “Mi hanno fatto odiare lo sport“. Ma l’Inter no. Quella resta. “Ce l’ho nascosta nel cuore, non se n’è mai andata“.
Poi, intorno al 2015, qualcosa cambia. “Ho fatto amicizia con dei ‘gobbi’ e mi è tornata la voglia di parlare, di litigare”. Così, senza accorgersene “l’Inter è tornata quella di quando ero bambino“. La passione è la stessa di sempre, ma sotto un’altra forma. “Non mi avveleno più come prima“, continua Nerone. Lo stadio è lontano, la curva pure “anche se i midi amici mi aspettano“. La comodità viene prima di tutto: “Il calcio adesso è il divano di casa, i replay, una birra, gli amici e mia moglie“.
E il presente? “Con l’Inter di quest’anno mi sembra di essere in un sogno in cui non riesco a fare quello che normalmente so fare benissimo. Giochiamo meglio di tutti ma non vinciamo”. Un giovane allenatore e la leadership di Lautaro a volte non bastano. “Abbiamo uno stile di gioco chiaro e una difesa a tre che, anche se non mi è mai piaciuta, ora mi convince. Però prendiamo pali, sbagliamo rigori e fatichiamo. Eppure l’organico è anche migliore di quello di Inzaghi“.
Gioie e dolori. Le ultime due finali di Champions dell’Inter, per esempio, Nerone non le ha vissute a casa. “Entrambe le volte stavo andando a suonare. La partita con il City l’ho vista su un computer in un van, quella con il PSG in un albergo del Sud Italia. Quando quella sera sono salito sul palco ho detto: ‘Meno male che la finale è domani’. Così nessuno poteva dirmi niente”.
E se avesse la possibilità di riscrivere un momento? “Non cambierei la nostra partita. Io ho sempre detto che affrontare l’Arsenal sarebbe stato meglio, ma nessuno mi dava ragione“. Contro il City, invece, nulla da fare. “Le coppe si vincono così, devi arrivare in finale e poi avere anche un po’ di culo“.
Ed è qui che il calcio smette di essere solo calcio. E diventa rap. “È come una battle di freestyle. Quando sei in serata sei imbattibile. Ma a volte va male. Quando in finale ci arrivano le due più forti, va come deve andare: è un tiro di dadi. L’importante è non prenderne cinque”. Più dura, invece, l’analogia con il PSG: “È come fare la battle più importante della vita e due ore prima la tua ragazza ti lascia. Secondo me è quello che è successo con Inzaghi”.
Poi arriva la notte che riscrive tutto. La seconda stella. Quel derby. “Ha cancellato il 6-0“. Nerone è con gli amici, va in piazza Duomo, festeggia. Ma la prima chiamata è sempre la stessa. “Mio papà. Quando c’è l’Inter di mezzo è il primo che chiamo. Quando si vince e quando si perde”.
Il mondo del rap è pieno di tifosi. Il calcio entra nelle conversazioni, nelle barre. Inevitabile che finisca anche nei rapporti tra colleghi. “Una volta Jake La Furia mi ha bloccato perché gli ho dato del pagliaccio dopo un derby vinto”. Ride. “Gemitaiz invece è primo al Fantacalcio, con mezza Roma in squadra e pochissimi gol subiti. È assurdo”.
Qualche contatto con il campo vero c’è stato, anche lontano dai microfoni. “Ogni tanto sento Barella, è uno molto preso dal freestyle. Una volta invece sono stato a cena con Dimarco, era il compleanno di Emis Killa. Lui non conosceva nessuno e noi eravamo delle bestie”, ammette sorridendo. “Non ho mai capito se si è divertito, se fosse imbarazzato o se adesso ci odia“.
E se deve raccontarsi con una metafora, torna sempre lì. “Se dovessi paragonarmi a una squadra direi proprio l’Inter. Grandi soddisfazioni, alternate a lunghe sofferenze”. Ma senza complessi. “Mi sento un rapper di Serie A. Una di quelle squadre che non vuoi mai affrontare, anche se sei il Real Madrid“. La classica trasferta da non affrontare a cuor leggero.
C’è un filo che tiene insieme tutto. Palco e San Siro, barre e partite, dischi e notti europee. Calcio e rap. Con un microfono in mano o una sciarpa al collo. Nerone non ha mai smesso di essere quel bambino con una maglia nerazzurra addosso. Come accade in “Il cielo è neroblù”, o in “Tre goal”, il pallone diventa memoria, identità, dichiarazione d’amore. Il senso è lì, nelle parole più semplici. Quelle che non cercano slogan, ma somigliano alla verità: “Chi sono io per giudicare, a me basta che l’Inter vinca e sono contento”.
A cura di Simone Bianchi
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