Ha ragione Mihajlovic: è questione di coraggio. È una brutta bestia, la malattia. Quella poi, lo è anche di più. Ma abbiamo imparato a conoscerlo bene, Sinisa. Non si arrende. Non l’ha mai fatto. Ci potrebbero essere pagine di retorica: “La forza del guerriero”; “Non mollare mai”; “Avanti tutta”. “Pensa positivo”. Ecco, soprattutto questa: l’abbiamo visto in lacrime qualche anno fa, quando “positivo” era una parola che ancora aveva il valore che doveva avere e quando di “positivo” non c’era proprio niente di niente. C’era paura, rabbia, disperazione: il mondo che cade sotto i piedi.
E poi c’era lui. Che dopo qualche mese di terapia si era presentato a Verona, magrissimo, debole, con un cappellino che presto sarebbe diventato una coppola: segno distintivo di uno che ha lottato davvero contro il demonio. Ma ce l’aveva fatta.
Adesso è tutto diverso: niente lacrime; niente “intervento in scivolata” per fermare un avversario in corsa. Guantoni e pugni, per stoppare sul nascere ciò che, di nuovo, non vogliamo raccontare. Alla paura, Mihajlovic risponde con rabbia. Un po’ come aveva mandato a quel paese i giornalisti di Torino, che lo aspettavano il giorno dell’esonero di Cairo: “Vi mando a f… ora o dopo?”, aveva detto.
La malattia è in appostamento. Lui risponde più o meno così. Una pausa dai campi, ma non da una lezione che può servire a tutti. Non è “pensare positivo”, non è falsa retorica. È affrontare le situazioni. La cosa più difficile di tutte.
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